La “diplomazia del funerale” ha portato Trump e Zelensky a parlarsi. Ma al di là della cortina fumogena della tregua di maggio, la Russia non mostra di voler fare marcia indietro su quelle che definisce le «condizioni minime» di una trattativa: il controllo sulla Crimea e delle altre zone occupate. Insomma, punta ancora al malloppo pieno
La “diplomazia del funerale” (funeral diplomacy) nella politica internazionale, prassi che risale al Medioevo e si è intensificata dagli anni Sessanta del secolo scorso, ha costituito un’importante opportunità per normalizzare il dialogo tra il presidente Donald Trump e il suo omologo ucraino, Volodymyr Zelensky, dopo lo scontro verbale alla Casa Bianca di quasi due mesi fa. La potente immagine della loro “confessione” all’interno della Basilica di San Pietro ha innescato diverse suggestioni, volte a comprendere sino a che punto questo dialogo potrà imprimere un’accelerazione nella difficile trattativa sulla guerra in Ucraina che si presenta irta di ostacoli e non lascia presagire un’immediata soluzione.
Se ci limitiamo ad analizzare le mere dichiarazioni di Trump, traspare una cauta soddisfazione per l’andamento delle prime interazioni tra gli attori in gioco, avendo anche avuto la percezione che il presidente Zelensky sia più «calmo» perché «vuole un accordo» e sarebbe pronto anche a cedere la Crimea per porre fine al conflitto.
Il verbo di Lavrov
Sul versante russo, la situazione sembra non cedere di un millimetro, soprattutto rispetto alle richieste dell’Ucraina e dei suoi alleati europei. Ne abbiamo un’esplicita manifestazione nelle dichiarazioni del ministro degli affari esteri, Sergej Lavrov, secondo il quale «la Russia non negozia sull’integrità del suo territorio, Trump lo ha capito», e non c’è stata sinora alcuna proposta di trasferire la centrale di Zaporizhia sotto la gestione congiunta di Stati Uniti e Ucraina perché il Cremlino ritiene di controllare e garantire la sicurezza dell’impianto nucleare.
l ministro sostiene che la Russia è favorevole al dialogo costruttivo tra gli Usa e l’Iran, mettendosi a disposizione delle parti per fornire assistenza e conferma che sono in atto contatti per organizzare un incontro tra Vladimir Putin e il suo omologo americano. Inoltre, Lavrov ribadisce che le dichiarazioni dei leader europei e del presidente ucraino confermano la percezione russa che si tratti della volontà di «trasformare l’iniziativa di pace di Trump in uno strumento per rafforzare l’Ucraina».
Infine, il ministro Lavrov ha aggiunto che non c’è stato alcun segnale da parte dell’amministrazione presidenziale americana di revocare le sanzioni sebbene Mosca sia interessata a portare avanti diversi affari con Washington.
Nel frattempo, nell’agenda politica russa è stata aggiunta un’altra pedina importante da utilizzare in sede negoziale: il capo di stato maggiore dell’esercito, il generale Valerij Gerasimov, ha annunciato la «completa sconfitta del nemico al confine della regione di Kursk». Questo traguardo consentirà al presidente Putin di fornire all’opinione pubblica russa nella prossima parata del 9 maggio a Mosca una «vittoria» dell’esercito russo, coadiuvato da truppe nordcoreane, su quello ucraino all’interno della Federazione russa.
Segnali di fumo
Politicamente più forte da questo risultato, Putin rilancia la palla a Trump e Zelensky con l’annuncio di una tregua unilaterale in vista dell’ottantesimo anniversario della vittoria dell’Urss sul nazismo a partire dalla mezzanotte moscovita dell’8 maggio sino a quella dell’11 maggio.
Nel comunicato diramato dall’ufficio di presidenza del Cremlino si specifica che «anche Kiev dovrebbe seguire l’esempio» e che qualora ci saranno violazioni da parte ucraina, «le Forze Armate della Federazione russa forniranno una risposta adeguata ed efficace». Inoltre, si sostiene che «la parte russa dichiara ancora una volta la propria disponibilità a negoziati di pace senza precondizioni, volti ad eliminare le cause profonde della crisi ucraina e un’interazione costruttiva con i partner internazionali».
In sostanza, il Cremlino, dopo la tregua pasquale che, secondo il governo ucraino, è stata violata circa tremila volte, intende fornire dei piccoli segnali incrementali di apertura nei confronti della presidenza Trump per preparare il terreno all’implementazione di un piano più concreto e soddisfacente per il Cremlino.
Al di là delle mere dichiarazioni dei leader di questi mesi, la frase putiniana «eliminare le cause profonde del conflitto» implica che il Cremlino non accetterà mai di lasciare la Crimea e i territori sinora occupati all’Ucraina, né tanto meno la presenza di peace-keepers europei in loco, bensì chiederà con fermezza la neutralità del paese e la denazificazione, partendo dall’uscita dalla scena politica del presidente Zelensky e della sua classe politica. Queste condizioni «minime» per il presidente russo, come ben sappiamo, indicano la volontà di ottenere una resa incondizionata dell’Ucraina per mantenerla sotto il controllo della sfera d’influenza russa.
Per l’amministrazione presidenziale russa, procedere con «piccole tregue» è un segnale di distensione verso gli Usa, ma è anche un’astuta mossa che non consente di raggiungere una posizione “Pareto ottimale” per Zelensky, che non deve uscirne come il presidente sconfitto, e per Trump, che non può cedere troppo alle richieste di Putin.
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