A volerlo sottrarre dalle polemiche televisive, il tema imposto dall’articolo del Corriere della Sera in cui si parla dei putiniani d’Italia ribadisce quanto il nostro sia un tempo di ridefinizione dei confini. Penso ci sia un generale accordo sull’idea che nessuno possa essere indagato per le proprie opinioni e che uno Stato debba difendersi dalla propaganda straniera.

Il problema è qual è il limite che separa la libera opinione dalla propaganda esterna? I parametri di oggi non sono certo quelli di ieri.

La relazione con una potenza straniera non è più solo quella verticale, per cui c’è una persona che prende denaro da un governo estero per alimentare una macchina di propaganda. La cosa è oggi molto più fine.

Come ha ben mostrato Stefano Feltri su questo stesso giornale, basta scrivere un post su qualche piattaforma social perché sia rilanciato da migliaia di account falsi creati ad arte da chi ha interesse a destabilizzare il dibattito interno.

Una strategia che abbiamo visto all’opera ormai molte volte negli ultimi anni: dalle elezioni americane del 2016, al referendum sulla Brexit, fino all’aggressiva retorica contro i migranti orchestrata dalla fu "Bestia” di Luca Morisi, tra i primi in Italia ad interpretare il meccanismo social ai fini della propaganda politica.

Per l’algoritmo che regola le piattaforme vale, alla potenza, l’assunto goebbelsiano, per cui una notizia falsa ripetuta mille volte diventa vera.

È ormai noto che, per fidelizzare l’utenza, le reti sociali premiano chi posta di più, favorendo la visibilità dei singoli contenuti. Più, poi, un contenuto è rilanciato, più viene condiviso, diventando, come si dice, virale.

Ora, se è vero che un utente non può essere ritenuto responsabile di vedere i propri contenuti rilanciati da centinaia o migliaia di bot, è anche vero che ha tutta convenienza alla loro diffusione.

In breve tempo il suo account diventerà più popolare, aumenterà il numero di followers e alla fine arriva anche il riconoscimento economico sia dalle piattaforme stesse che dall’introito indotto dalla popolarità acquisita.

L’efficacia della propaganda

Durante la pandemia, quando circolavano via social video e audio di ogni tipo, a partire da quello in cui una sconosciuta voce femminile affannata invitava, su consiglio dei medici impegnati in corsia, a bere le spremute d’arancia per prevenire il contagio, giunse anche a me il famoso video del virologo Giorgio Palù, in cui proponeva ricette assurde smentite dai fatti passati, presenti e futuri.

Un’intervista rilasciata in un anonimo canale tv veneto, chiaramente indirizzata da polemiche fra virologi della stessa università, portò il professore in quota Salvini, per poi, su pressione del leader leghista, essere inserito nel nuovo comitato tecnico scientifico del governo Draghi.

Controllando, constatai che il video mi proveniva da un canale YouTube di un barzellettiere di provincia che postava solo filmati in cui raccontava barzellette.

Aver, però, rilanciato dal proprio canale il video del momento gli avrà portato un numero di visualizzazioni e di iscritti insperato. Chissà quanti altri l’avranno fatto con lo stesso scopo.

Ma come si possa acquisire popolarità partendo da internet lo dimostrano ogni giorno scrittori, attori, filosofi improvvisati, il cui nome non esiste nei circuiti professionisti, ma vengono ricercati da case editrici, giornali e Tv per il loro numero di follower.

Per avere benefici da un post, non c’è necessariamente bisogno di uno scambio di soldi, basta inserirsi in un sistema che finirà col premiarti anche sul piano economico.

Trasferito tutto sul piano del conflitto russo-ucraino, una strategia simile sarebbe da considerarsi propaganda al servizio di una potenza straniera? Difficilissimo capirlo. Starà ai giuristi fissare i confini dei reati, ma ai filosofi quelli dei concetti.

Alla domanda, poi, su chi stabilisce il limite fra opinione e propaganda, beh, non c’è risposta più facile: le istituzioni.

Quelle stesse che stabiliscono dalla notte dei tempi cosa è giusto e cosa no, cosa è morale e cosa no, cosa è reato e cosa no. Si chiama politica. Non sarà la perfezione, ma è il meglio che abbiamo. 

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