Seguire la scienza. È questo l’invito che abbiamo spesso sentito ripetere negli ultimi tempi sia a proposito del Covid-19 che dei cambiamenti climatici. L’appello viene riproposto sull’ultimo numero della rivista Science. Quattro studiosi americani chiedono che le politiche di riduzione delle emissioni di gas serra siano saldamente ancorate a una valutazione dei rispettivi costi e benefici.

I costi delle politiche climatiche sono quelli da sostenere per ridurre le emissioni, per esempio incentivando l’uso di energia a minor contenuto di CO2. 

Il beneficio invece è rappresentato dal costo sociale causato dalle emissioni che vengono evitate.

In base all’approccio standard una politica è auspicabile se il costo da sopportare è inferiore al danno evitato. Ma, sottolineano gli autori dell’articolo, questa impostazione è stata abbandonata in favore di un’altra ossia la minimizzazione dei costi per perseguire un obiettivo politico predeterminato come, ad esempio, il mantenimento dell’incremento della temperatura al di sotto di 1,5 °C e il conseguente azzeramento delle emissioni nette stabilito dalla Ue all’orizzonte temporale del 2050. L’auspicio è quello di ritornare all’approccio tradizionale puntando a un affinamento della stima del danno.

Il costo sociale delle emissioni

Il presidente statunitense Biden nel suo primo giorno in ufficio ha ricostituito il Gruppo di lavoro per la stima del costo sociale delle emissioni di CO2.

L’esito definitivo della valutazione è atteso per il mese di gennaio 2022; un rapporto intermedio ha fissato il valore di riferimento a 52 dollari per tonnellata di CO2 immessa in atmosfera.

Nell’approccio europeo il costo minimo di abbattimento delle emissioni è stimato crescere dagli 80 euro del 2020 agli 800 euro nel 2050.

L’argomento principale alla base della politica della Ue è quello della impraticabilità dell’analisi costi benefici classica a causa del fatto che vi è una forte incertezza in merito alla valutazione dei danni arrecati dalle emissioni.

Al riguardo, è da segnalare un altro articolo scientifico da poco pubblicato su PNAS, la rivista ufficiale dell’Accademia nazionale delle scienze degli Stati Uniti. Gli autori provano a colmare la maggiore lacuna delle valutazioni economiche degli impatti dei cambiamenti climatici, quella relativa ai cosiddetti “tipping point” ossia i punti critici, oltrepassati i quali, si possono manifestare mutamenti di ampia portata e irreversibili a carico di diversi sistemi ambientali come lo scongelamento del permafrost, la disintegrazione della calotta glaciale della Groenlandia, lo scioglimento del ghiaccio artico e il rallentamento della circolazione atlantica termoalina.

La conclusione a cui giungono gli studiosi è la seguente: tenendo conto degli effetti dei “tipping point” il costo sociale dell’emissione di una tonnellata di CO2 crescerebbe di circa il 25 per cento, passando da 52 a 65 dollari. In base alla distribuzione dei valori prodotta vi sarebbe inoltre una probabilità del 10 per cento di raddoppio dello stesso.

In termini di consumi privati pro-capite l’effetto equivarrebbe a una riduzione da 71.200 a 70.800 nell’anno 2100 con un incremento della varianza.

Gli autori dello studio avvertono che la valutazione potrebbe essere conservativa. L’indicazione che sembra emergere è in ogni caso di assoluto rilievo. Mettere nel conto eventi singolari di notevole impatto non altera in misura abnorme i costi del cambiamento climatico: l’ordine di grandezza rimane invariato. Quali sono le implicazioni politiche di tale ricerca?

Quanto tassare le emissioni

Se consideriamo il mondo nel suo insieme, l’attuale tassazione delle emissioni risulta essere molto inferiore a quella ottimale: in venticinque Paesi che rappresentano l’82 per cento delle emissioni essa ammonta infatti a tredici euro per tonnellata di CO2 emessa; i restanti Stati o non prevedono tassazione o, addirittura, sussidiano l’uso dei combustibili fossili. Verosimilmente, quindi, il prelievo medio si attesta intorno ai dieci euro.

All’estremo opposto sembra porsi la politica europea che implica un costo di abbattimento di gran lunga superiore alla stima del danno arrecato dalle emissioni. E che, in alcuni casi, sembra perdere di vista oltre che l’efficienza anche l’efficacia optando per politiche di riduzione che non solo hanno costi verosimilmente maggiori dei benefici ma non sono neppure quelli minimi possibili e, così facendo, rende più difficile coagulare il necessario consenso degli elettori.In medio stat virtus?

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