Facciamo un esercizio di immedesimazione: immaginiamo una persona, una donna. Ha appena dato alla luce una bambina nel reparto maternità del St Thomas di Londra.

Il reparto si affaccia sul fiume, sull’altra sponda c’è il parlamento e il Big Ben, che poi è un grosso orologio. In vari momenti della giornata la donna guarda fuori dalle finestre dell’ospedale e vede il fiume, ma soprattutto l’ora.

Il Big Ben ha una presenza tale da impedirle di notare qualsiasi altra cosa, l’ora esatta anzi le arriva di continuo, una specie di piccola aggressione.

Negli anni a venire quel monumento le farà corrugare la fronte, come un mistero irrisolto. Le apparirà carico di implicazioni emotive e spirituali, e quando ci capiterà di nuovo davanti osserverà i turisti pensando che loro non vedono quello che vede lei.

Mentre si trova lì in ospedale con la sua bambina bella e nuova, le ostetriche vanno e vengono dalla stanza per darle delle indicazioni. Quando le parlano, però, non usano il suo nome o il suo cognome, ma la chiamano mamma.

Le dicono buongiorno mamma, come stai mamma, prendi questa pastiglia mamma. Quasi fossero tutte figlie sue.

Questo loro modo di chiamarla la assale senza che lei possa opporsi, come l’ora del Big Ben.

Non capisce se queste estranee che le dicono mamma le piacciano, se le sembrino gioiose e desiderose di creare confidenza, oppure un po’ maleducate e sbrigative.

Forse gradirebbe essere chiamata come si chiamano normalmente gli adulti nei luoghi pubblici, cioè col cognome. Ma intuisce che per le ostetriche chiamarla mamma deve essere un buon compromesso.

Se la chiamano così non devono imparare il suo cognome, che fra l’altro è straniero (e contiene ben due zeta). Se la chiamano così, inoltre, sembrano gentili dicendo qualcosa di molto personale: mamma.

Solo molti mesi dopo la madre penserà che forse, invece, la chiamavano così per ricordarle la realtà dei fatti. Per ricordarle che è diventata una madre, anzi una mamma.

Soprattutto perché quella è la sua prima figlia. Le neomadri a volte hanno la tendenza a trattenere rapporti con la loro precedente persona, la non-madre, e forse le ostetriche vogliono che questo non avvenga.

Da mamma a madame

Facciamo un balzo in avanti di alcuni anni, ritroviamo la stessa donna, ora ha due figli.

Il secondo è appena nato, non a Londra, ma nel reparto maternità di un ospedale pubblico del Lussemburgo.

Dalle finestre si vede un grande albero e dei tramonti di buona qualità, ma nessun fiume e nessun orologio.

È settembre, il mese con la luce migliore.

Le ostetriche, in quel reparto, la chiamano madame, “Bonjour madame”.

La madre fa parte di quelle persone semplici che pensano che in francese tutto sembri più elegante. Di quell’ospedale conserverà per sempre un buon ricordo.

Veniamo a oggi, la madre guarda i suoi figli, ormai non più minuscoli, ma neppure grandi, e le piace che la chiamino mamma, le piace il suono della parola.

Le piace perché loro sono appunto i suoi figli, non sono delle ostetriche sconosciute.

Percepisce l’importanza che questa parola ha per i suoi bambini, il rapporto che si crea fra lei e loro mentre la dicono, il rapporto che si crea fra il fratellino e la sorellina dentro all’idea di condividere una mamma. Continua invece a non piacerle che altri, sconosciuti e non, usino per lei quella parola.

Le sembra che vogliano impicciarsi di cose che non possono capire. Non le piace essere etichettata come mamma, non le piace la frase “la mamma è sempre la mamma”. (Non le dà fastidio, invece, la parola “madre”, perché evoca una figura alta e teatrale. Un personaggio.)

Ogni tanto la donna pensa che la maternità è una questione recondita, interna. È qualcosa che inizia in maniera invisibile dentro di te, e cresce dentro di te.

È il regno dell’intimità e dell’ineffabile. Questo non solo se porti avanti una gravidanza, ma anche se, per esempio, matura in te il desiderio di adottare un bambino: la maternità è una vicenda che germoglia nel segreto. Forse – pensa – lo è anche la paternità.  

Se la donna decidesse di raccontare al mondo la sua esperienza della maternità, per esempio parlando del Big Ben e di quel che ha significato per lei, farebbe dunque un esercizio di condivisione per nulla scontato.

Donerebbe una parte di sé che forse il mondo non si merita, una parte che anzi potrebbe essere ignorata o dileggiata. Il mondo, invece, è stato assai rapido a etichettarla senza chiederle il permesso.

La donna – chiamiamola Letizia - pensa che il mondo si prende spesso molte libertà. Pensa, dunque, che lei non racconterà mai nulla.

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