In questi giorni di vertici internazionali sul clima è facile rimanere perplessi: anche gli impegni più concreti si rivelano spesso sfuggenti e ambigui. Per contenere entro 1,5 gradi il riscaldamento del pianeta, gli accordi di Parigi del 2015 hanno previsto l’impegno dei paesi più ricchi a destinare 100 miliardi di dollari all’anno per aiutare la transizione verde di quelli meno sviluppati.

La Cina è responsabile del 29 per cento delle emissioni di anidride carbonica, contro il 14 per cento degli Stati Uniti. Ma in media un cinese emette 7,38 tonnellate di carbonio all’anno, un cittadino americano 15,52. Se si vuole fermare il riscaldamento, bisogna agire più in Cina che negli Stati Uniti, ma è equo imporre i sacrifici a paesi che hanno soprattutto la colpa di essersi industrializzati dopo e di essere molto numerosi?

Non sono problemi di facile soluzione. E l’idea che basti stanziare 100 miliardi dai paesi ricchi per finanziare la transizione verde di tutto il resto del mondo (oltre a quella domestica) è un po’ illusorio. Intanto perché l’Onu dice che 100 miliardi all’anno, ogni anno, è il minimo, non il necessario, anche se finora non siamo mai arrivati oltre 62.

In ogni caso si tratta di calcoli approssimativi, che includono prestiti, trasferimenti a fondo perduto, interventi bilaterali tra paesi e quelli tramite le banche di sviluppo, fondi pubblici e privati.
Dietro ai titoloni sui giornali, insomma, c’è una zona grigia nella quale è facile perdersi.

Per questo molti economisti, come Raghuram Rajan sul Financial Times, spingono per meccanismi più semplici e diretti che impostino la redistribuzione a livello individuale, senza delegare tutto ai rapporti tra governi.

Rajan suggerisce che ogni paese versi a un fondo una cifra per ogni tonnellata sopra la media mondiale di emissioni che produce, quella cifra è uguale per tutti, così l’Uganda come gli Stati Uniti avranno lo stesso incentivo a migliorare (mentre oggi, per paradosso, ad alcuni conviene rimanere inquinanti per ricevere aiuti e altri preferiscono pagare invece che cambiare).

Ogni paese pagherebbe la stessa cifra (Rajan indica 10 dollari) per ogni tonnellata in aggiunta rispetto al punto di partenza, così che nessuno sia avvantaggiato o penalizzato sulla base del proprio passato.

Facile a dirsi, lo svantaggio è che così il costo del contenimento della temperatura emergerebbe in modo più chiaro, invece che essere annacquato nella fiscalità generale. E quel costo rischia di essere significativo, al punto che ci sono timori per una “greenflation”, un aumento di prezzi inevitabile se si incorpora il costo dell’impronta ambientale nel prezzo finale al consumatore. Vale per tutto, dal caffè ai voli aerei alle automobili.

Sono scelte impegnative, che ne determinano altre: non ha senso al contempo chiedere a certi settori di pagare costi maggiori per il loro impatto negativo sull’ambiente e intanto continuare a sussidiarli, come accade in Italia per l’autotrasporto, per esempio.

Il ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani sostiene che i 19 miliardi annui di sussidi fiscali ambientalmente dannosi, finanziati dalle nostre tasse, non si possano cancellare con un tratto di penna, ma al massimo riallocare. Si può chiedere al camionista di pagare di più il carburante ma solo se gli si riduce fiscale sul lavoro, nella speranza che poi passi a veicoli meno inquinanti. Auguri.

E’ chiaro che di fronte a 19 miliardi annui di sussidi che vanno nella direzione opposta a quella indicata dalla Cop26 in corso a Glasgow, i contributi da 1,4 miliardi promessi dal premier Mario Draghi al fondo dell’Onu per la transizione sono ben poca cosa. Magari sono utili ad avvicinarsi ai 100 miliardi dell’obiettivo, ma non a risolvere davvero il problema.

Nel lungo periodo la transizione ecologica è nell’interessi di tutti e un motore della crescita, come ripete il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, ma nel breve è un costo. Che dobbiamo rassegnarci tutti a pagare.

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