La Federal Reserve ha annunciato mercoledì 27 luglio il secondo aumento consecutivo dei tassi d’interesse di 75 punti-base, ampiamente atteso dal mercato che temeva piuttosto un maxi aumento di un punto percentuale.

Durante la conferenza stampa il presidente, Jerome Powell, ha comunicato che a settembre le decisioni di politica monetaria saranno determinate dai dati economici nel frattempo pubblicati.

Il che non significa che gli ultimi rialzi siano stati indotti dalle macchie solari o da qualche allineamento astrale ma che la Fed aveva necessità di agire “speditamente” per recuperare la rilassatezza con cui ha sin qui trattato il rialzo dei prezzi.

In altri termini, e analogamente a quanto già fatto dalla Banca centrale europea, la Fed manda in pensione la cosiddetta “forward guidance”, che suggerisce ai mercati cosa accadrà alla riunione successiva, prima ancora di conoscere i dati. Se tutto ciò può apparire esoterico e sul filo dell’assurdo ai non addetti ai lavori, è perché forse lo è davvero.

L’obiettivo resta quello di convincere i mercati che i banchieri centrali sanno cosa sta accadendo all’economia, o perlomeno intuiscono alcuni sentieri potenziali e si dicono pronti a gestirli.

I mercati, che da qualche tempo hanno trovato maggiore compostezza e finanche qualche auspicio di lieto fine per la congiuntura, hanno fatto mostra del ritrovato ottimismo e prendendo le parole di Powell come il suggerimento di un sentiero meno ripido di aumento dei tassi.

Verso la recessione

Oggi è uscita la prima stima del prodotto interno lordo statunitense del secondo trimestre (ce ne saranno altre due, prima del dato definitivo) e, contrariamente alle ottimistiche attese, si è registrata una flessione annualizzata dello 0,9 per cento che equivale, nella metodologia di misurazione europea, a -0,2 per cento rispetto al trimestre precedente. Le stime di consenso ipotizzavano invece una variazione lievemente positiva.

È quindi iniziato il dibattito “filosofico” sulla caduta in recessione dell’economia statunitense.

Come noto, due trimestri consecutivi di contrazione del Pil rappresentano una recessione “tecnica”, qualunque cosa ciò significhi.

Da Casa Bianca e Tesoro sono subito partiti inviti a considerare che la recessione viene certificata, in base a una molteplicità di indicatori, dal National Bureau of Economic Research (Nber), e comunicata a evento già accaduto. Le statistiche, tuttavia, indicano che i due trimestri consecutivi di contrazione del Pil si sovrappongono in modo quasi perfetto alle certificazioni del Nber.

Nel dettaglio, nel secondo trimestre i consumatori americani hanno continuato a fare il proprio dovere, sia pure con meno impeto, con un contributo positivo dello 0,7 per cento al Pil fatto da consumi di servizi da parte delle famiglie, mentre quello di merci si è contratto. Negativo anche l’investimento fisso, residenziale e non residenziale, in conseguenza della stretta monetaria.

Forte sottrazione alla crescita per opera delle scorte, a conferma del processo di decumulo da parte delle aziende.

Positivo l’andamento del commercio estero netto, malgrado la forza del dollaro, anche grazie all’export energetico.

Il mercato del lavoro in complesso regge bene, anche se lo stesso Powell sta preparando gli americani, soprattutto quello che risiede alla Casa Bianca, all’eventualità di un suo indebolimento nei mesi a venire.

Da non scordare che l’occupazione è un indicatore posticipato nel senso che, quando si muove, lo fa in ritardo rispetto allo stato dell’economia.

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