La Civiltà Cattolica è una rivista che compie 170 anni: anche il capo dello Stato Sergio Mattarella ne ha tessuto gli elogi e la lunga vita, segnata da una fedeltà al papato che era lo scopo della sua nascita ed è stata la cifra del suo percorso. Sulle sue colonne si è lodato tutto ciò che oggi fa arrossire la coscienza cattolica: la ferocia della repressione antimodernista, gli stereotipi dell’antisemitismo più bieco, la fiducia nel fascismo, pestaggi teologici come quello di don Lorenzo Milani, la diffidenza per la democrazia, i sogni di una ritrovata egemonia di cristianità, l’adesione a parole d’ordine stantie.

Insieme è passata quella capacità di dare per piccole compensazioni e per sussulti di rigore intellettuale il senso che la chiesa non è quella compagine di ebeti sottomessi descritta dal cancelliere prussiano Otto von Bismarck all’indomani del concilio Vaticano I, perché – come scrissero nel 1875 i vescovi tedeschi d’intesa con Pio IX, – in essa non può mai essere mai accolto “quell’assioma immorale e dispotico” (illud axioma immorale et despoticum) che gli anticlericali e gli ultraclericali ritengono essenza del cattolicesimo romano. Il tutto filtrato da una invisibile ma incisiva lettura delle bozze in segreteria di Stato vaticana, che dà maggiore autorevolezza a ciò che il lettore trova, senza sapere ciò che è svanito sotto l’intelligentissima penna politica di un diplomatico acuto o sotto le stupide forbici di un monsignorino in carriera.

Per questo quando Civiltà Cattolica parla del papa il punto non è che ne parli bene (che è ovvio), o perché (strovvio), ma il come: ed è così che va letto il lungo pezzo che Antonio Spadaro, il direttore della rivista, ha pubblicato sul governo di papa Francesco. Un pezzo importante, una fettina del quale è stato anticipato sul Corriere della sera, quasi che gli servisse sponda, dal titolo chiaro (“Il governo di Francesco”) e con un sottotitolo che fa sobbalzare il lettore italiano (“È ancora attiva la spinta propulsiva del pontificato?”): perché ricorda da vicino la frase che Enrico Berlinguer usò il 15 dicembre 1981, dopo il “golpe polacco” del generale Jaruzelski, per indicare il destino della “rivoluzione socialista d’ottobre, il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca”, che esaurita quella “spinta propulsiva” non poteva che prendere atto che “oggi siamo giunti a un punto in cui quella fase si chiude”.

Non sapremo mai se il correttore della segreteria di Stato è un giovane minutante non europeo che manco sa chi fossero Berlinguer e Jaruzelski o qualcuno che voleva si usasse quella allusione e che la firmasse il direttore Spadaro.

Il gesuita messinese, venuto dagli studi letterari su Pier Vittorio Tondelli, è infatti con Francesco in una posizione particolare: egli non è solo uno dei direttori che ha stabilito col pontefice un rapporto che va al di là dell’ossequio (fu così anche fra p. Roberto Tucci e Giovanni XXIII, o p. Bartolomeo Sorge e Paolo VI); è quello che più di ogni altro sottolinea il carattere ignaziano, gesuita di papa Francesco; ed è questo aspetto, che non può non venire direttamente dal papa, che egli applica alla lettura del papato e ai segnali di delusione che anche questa newsletter aveva messo in luce evocando quelli (si perdona una autocitazione?) “I suoi laudatores di ieri che gli rimproverano oggi di non aver completato con i tempi che si erano sognati riforme che erano la restaurazione di parti dimenticate della grande tradizione cristiana (l'ordinazione degli sposati, il diaconato femminile, la sinodalità del governo)”.

Bene: la tesi di Spadaro è che per capire la resistenza di papa Francesco alle riforme strutturali bisogna ripartire da Ignazio e dal citatissimo “discernimento”, che sta al pontificato bergogliano come la “mediazione” a quello montiniano o la “verità” a quello ratzingeriano: vero hashtag della Compagnia, il discernimento, fa dire il papa a Spadaro, non si fa fra le idee, ma fra dimensioni “reali”, processi “reali”. E le pezze d’appoggio sono oltre al fondatore della Compagnia di Gesù, padre Pierre Favre, il “prete riformato” canonizzato nel 2013 e di cui fu editore critico un grande intellettuale come Michel de Certeau; e padre Miguel Ángel Fiorito, il vero padre spirituale di papa Francesco di cui la Civiltà Cattolica ha pubblicato un’opera omnia che contiene tutti i codici per capire la vita di padre Bergoglio e il papato di papa Francesco e un magistero che cerca la “frase motivante” (una espressione che Fiorito muta dal gesuita settecentesco Claude Judde).

Per la Civiltà Cattolica in questo c’è il cuore di un pontificato i cui tratti vengono sottolineati e lodati con lo stesso gesto: dunque un papa che non esegue un “programma” (anche se Spadaro stesso lo chiama “progetto ignaziano”), che rifiuta gli schematismi ideologici (anche se il rifiuto ideologico delle ideologie è una ideologia), che rifiuta lo sguardo mondano dell’efficienza per leggere la fraternità.

Ma dentro un elogio intelligente, prevedibile e anche duro nei confronti ci sono tre messaggi che potrebbero essere farina del sacco spadariano o venire dal mulino di Santa Marta.

Il primo riguarda l’ordinazione a preti di persone sposate (il ministero uxorato) che in astratto nella chiesa cattolica c’è già, ma non è prassi): Francesco ha dato a Spadaro un suo inedito che la chiesa tedesca dovrebbe leggere con attenzione per non fare la fine del sinodo sull’Amazzonia, che su questo punto decisivo che tutti attendevano fornisse al papa l’occasione per uscire da un mito del celibato che già oggi lascia i fedeli senza eucarestia.

Francesco non ha minimamente sconfessato il sinodo, ma non ha rilanciato su scala universale perché, dice in un appunto inedito dato a Spadaro, “c’è stata una discussione... una discussione ricca... una discussione ben fondata, ma nessun discernimento, che è qualcosa di diverso dall’arrivare a un buono e giustificato consenso o a maggioranze relative”. Questa distinzione fra sinodalità e parlamentarismo, che non si riduce ad un mero antagonismo, però, è una prima indicazione per il sinodo sulla sinodalità del 2021.

Il secondo riguarda la riforma del papato. La riforma della Curia, ormai pronta, non porta novità significative: un po’ come fu nella riforma del codice di diritto canonico il meglio starà nella bolla di promulgazione: ma prima di renderla nota questo saggio dice che quel che Francesco lascia in eredità è uno “stile” (espressione chiave della teologia di Christoph Theobald) del pontificato: quello che gli fece scrivere ai vescovi cileni, in una lettera citata da Spadaro: “Sono incorso in gravi errori di valutazione e percezione della situazione, in particolare per mancanza di informazioni veritiere ed equilibrate. Fin da ora chiedo scusa a tutti quelli che ho offeso e spero di poterlo fare personalmente”, fissando così la rivedibilità di decisioni assunte talora con il metodo che è quello del preposito generale.

Il terzo riguarda messaggio è una chiave di lettura preventiva della prossima enciclica o esortazione che si dice che il papa prepari o abbia preparato: qualcuno ne saprà già qualcosa, altri attendono di leggerla, se ci sarà. Ma per capirla, par di intuire, si raccomanda a tutti di leggere mistici gesuiti dalla Francia del Settecento all’Argentina del Novecento.

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