«Care amiche, cari amici, con questa lettera desidero invitarvi a partecipare al seminario sulla costruzione del Partito democratico, che si terrà ad Orvieto il 6-7 ottobre prossimi. L’incontro è promosso da me quale presidente dell’Ulivo, di intesa con i massimi dirigenti di Ds e Margherita (…) Questa iniziativa nasce da una discussione approfondita e risponde a una esigenza posta da milioni e milioni di cittadini che ci hanno sostenuto e che ci sostengono (…) Vogliamo realizzare un incontro fecondo e libero tra i rappresentanti di partiti, associazioni, movimenti e personalità interessati a trasformare l’Ulivo da alleanza elettorale a soggetto politico che unisca tutti i democratici».

Così Romano Prodi, all’epoca presidente del Consiglio, il 19 settembre 2006. Un anno in anticipo sulle primarie che avrebbero incoronato Veltroni leader del nuovo soggetto.

«Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid». Così Nicola Zingaretti nel post che due giorni fa ha annunciato la sua intenzione di dimettersi dalla segreteria conquistata in primarie quasi senza storia.

Dall’inizio alla fine

Nel mezzo tre lustri. Moltissimi nella vita di un adolescente, un’inezia nella parabola di un partito pensato come la forza “per il nuovo secolo”. Quindici anni e sette segretari. I due più longevi, Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi, lo hanno guidato per oltre nove dei quattordici anni di vita. Entrambi, smessa la carica, hanno dato corso a due scissioni.

Degli altri cinque, il primo, Walter Veltroni, ha intrapreso il percorso di regista e scrittore. Il successore, Dario Franceschini, è ministro della cultura. Maurizio Martina da alcune settimane è approdato alla vice direzione della Fao mentre Guglielmo Epifani ha aderito a Articolo 1.

In sintesi, su sette segretari tre hanno cambiato partito, due hanno cambiato lavoro, uno risiede al governo, l’ultimo si è appena dimesso spendendo parole durissime verso la classe dirigente che per ventiquattro mesi aveva provato a gestire.

Se fossimo in quello splendido film, la battuta suonerebbe: «Houston, abbiamo un problema». Perché a essere schietti, dinanzi alla scelta traumatica di un segretario che si dimette nel modo appena vissuto, una cosa è peggio di fingere l’unità che non c’è, ed è tacciare il gesto di emotività, uno scatto di nervi a fronte di una normale dialettica tra posizioni.

Questo, sia detto per inciso, suona offensivo della persona e pure del buon senso perché quanto è sotto gli occhi non corrisponde a una crisi di crescita. Viceversa, prefigura il pericolo di una estinzione del progetto col fallimento della più ambiziosa ricomposizione dei ceppi del riformismo italiano.

Ricomporre ciò che la storia aveva diviso

Cattolici democratici, post comunisti, socialisti e azionisti, l’ambientalismo e il pensiero delle donne, la nuova cultura dei diritti e delle libertà: nel solco iniziale, come nelle parole di Prodi appena citate, si riversava una piccola utopia divenuta cronaca.

Ciò che la vicenda storica aveva diviso assecondando la faglia di ideologie contrapposte, dopo il 1989, poteva ricomporsi in una fusione di elementi destinati a far vivere un Pantheon dove Gramsci incrociava Gobetti e Sturzo, Moro ritrovava Berlinguer, e giovani e donne – i movimenti e il femminismo – potevano sposarsi alla causa dell’Ulivo fatto partito.

Ma allora cosa è successo per generare la slavina che tutto potrebbe sommergere? E cosa fare, se ancora qualcosa si può fare, per evitarlo? La premessa è dirsi due verità e trarne le conseguenze.

La prima è che quel partito nasceva in un contesto chiaro: con un bipolarismo e un maggioritario all’apparenza irreversibili. Di lì a poco, invece, quel bipolarismo sarebbe stato disarcionato dal Movimento 5 Stelle mentre da mesi si discute di un ritorno al proporzionale.

Se fondi un partito scolpendo nello statuto che la figura del segretario coincide col candidato premier e ne prevedi l’elezione in primarie aperte, dai al soggetto forme e regole proprie del sistema politico e istituzionale che immagini destinato a durare nel tempo.

Però se tutto cambia, e rapidamente, anche forme e regole non funzionano più.

Gli attrezzi inutili

Ecco la prima verità: un bagaglio di attrezzi (vocazione maggioritaria malamente intesa, partito pigliatutto) oggi è più zavorra che sostanza. Al contrario, e siamo alla seconda verità, resiste nel discorso di Prodi la potenzialità di un soggetto aperto e inclusivo, un vero Partito Democratico capace soprattutto ora di restituire una casa ai tanti orfani di una sinistra persa e spersa nei rivoli del volontarismo, ma che a una cultura riconoscibile potrebbero aderire di slancio.

Dirlo significa prendere atto che questo Pd, per quel che è diventato e per i notabilati che ha protetto, aderisce all’impronta delle origini come il chiodo al quadro.

E allora se vogliamo salvare il progetto, e con quello la sinistra, rimane una sola via: rifondarlo quel partito, ripensarlo dal basso e dalla radice, farne una forza più larga, inclusiva, finalmente definita nella sua identità, riscoprendo un’etica dell’impegno non ostaggio di rendite e potentati inamovibili.

Se Nicola Zingaretti scegliesse di guidare questa pagina avrebbe dietro a sé un consenso larghissimo e sufficiente a tagliare quel traguardo. Spero ci pensi. Una certezza comunque esiste ed è che il Pd non potrà sopravvivere senza cambiare. Molto, quasi tutto, possibilmente subito.

    

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