Pur senza averne alcuna vera intenzione, i partiti stanno costruendo il contesto che potrebbe portare Mario Draghi alla presidenza della Repubblica. Progetti tanto opposti quanto velleitari si elidono e lasciano in campo l’unico nome che ha una maggioranza davvero larga, visto che al suo insediamento a  febbraio 2021 Draghi ha ottenuto 797 voti, tra Camera e Senato, quasi 200 in più di quelli che servono per diventare presidente della Repubblica.

Nessun partito vuole davvero Draghi ma, come evidente da mesi, è il second best per tutti, cioè la soluzione migliore se si rivela impossibile quella preferita. Matteo Salvini ha capito che fermare la corsa di Silvio Berlusconi è necessario per salvare il centrodestra (esploderebbe se troppi franchi tiratori umiliassero l’anziano leader in aula facendogli mancare i voti) e intravede una possibilità di recupero dopo mesi di appannamento.

Con Draghi al Quirinale e il nuovo governo con dentro i leader di partito che ha proposto, Salvini otterrebbe molti risultati in un colpo solo: riprendere il controllo dei suoi e la visibilità necessaria in vista della campagna elettorale e tornare il capo del centrodestra almeno per il tempo necessario a evitare una riforma della legge elettorale in senso proporzionale che ha il principale scopo di togliere seggi alla Lega nella prossima legislatura.

Nel centrosinistra, le grandi manovre dei tanti aspiranti registi stanno producendo risultati miseri: Matteo Renzi ha bruciato prima Pierferdinando Casini e poi Paolo Gentiloni. Il Pd si è avvitato in una linea contorta: no a Silvio Berlusconi, meglio un nome condiviso, Draghi va bene a palazzo Chigi, Sergio Mattarella andrebbe bene per un bis ma lui non vuole.

Se in condizione di imporre un proprio candidato mettendo in minoranza il centrodestra, il Pd avrebbe pronto Giuliano Amato. Ma servono i voti dei Cinque stelle, dove non comanda nessuno. Il capo ufficiale, Giuseppe Conte, continua a tramare con il suo consigliere del Pd Goffredo Bettini per rinsaldare la vecchia maggioranza giallorossa attorno al nome di Amato.

Luigi Di Maio, l’unico che i Cinque stelle riconosco davvero come leader, ha tutt’altri piani e da mesi negozia in modo trasversale: qualunque presidente della Repubblica diverso dal candidato di Conte rafforza il peso di Di Maio nei Cinque stelle, dunque benissimo Draghi, cui il ministro degli Esteri ha sempre dimostrato lealtà.

Il paradosso è che con Draghi al Quirinale e il governo dei leader proposto da Salvini, anche Conte avrebbe una speranza di sopravvivenza: potrebbe reclamare un posto da ministro e recuperare un po’ di quel consenso che aveva prima di trasformarsi da uomo delle istituzioni a fragile capo partito. E pure Letta potrebbe trovare un suo ruolo senza ridursi a mero arbitro delle incomprensibili faide tra correnti.

Due persone possono sbloccare lo stallo attuale: Silvio Berlusconi può ritirare la sua candidatura e diventare il grande elettore di Draghi al Quirinale, che a quel punto figurerebbe come il primo presidente della Repubblica espresso dal centrodestra. Oppure potrebbe essere Salvini a proporre Draghi, subito o alla quarta votazione quando il quorum si abbasserà, un secondo dopo aver chiarito che Berlusconi non ha i voti.

Il Pd non potrebbe dire di no, almeno una parte dei Cinque stelle si aggregherebbe, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni non farebbe mancare il suo supporto. Questa operazione avrebbe potuto guidarla Letta con il Pd, ma non ha voluto, ossessionato dal desiderio di avere al Colle “uno dei suoi”, cioè Amato o Mattarella bis.

La scelta di Draghi per il Quirinale è l’unica scelta razionale per un sistema di partiti le cui strategie, però, di razionale hanno ben poco.

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