C’è una cosa che nell’ipertrofico bla bla bla sull’elezione del presidente della Repubblica proprio non quadra: la sottovalutazione di buona parte dei politici di centrosinistra e dei commentatori della candidatura di Silvio Berlusconi.

Esattamente come quando, nel 1993, consideravano surreale, dunque assolutamente improbabile, l’ipotesi che il fondatore-proprietario di Fininvest potesse veramente assurgere a leader politico nazionale e assumere la guida del governo da palazzo Chigi.

Le ragioni di merito che fanno considerare Berlusconi ineleggibile sono note, numerose e robuste. Ma valgono ovviamente per i suoi avversari e i suoi critici. Non hanno basi legali sufficienti per renderlo ineleggibile in senso tecnico. Inoltre, come nel 1993, c’è una profonda asimmetria tra i sostenitori e i critici anche sulle condizioni fattuali che, indipendentemente dai giudizi di merito, potrebbero rendere possibile l’esito.

Avversari e critici, invece che considerare la possibile elezione di Berlusconi un rischio da sminare, l’hanno sostanzialmente derubricata a smania di un anziano che ha perso il senso della realtà o a pre tattica, da parte sua, per acquisire un ruolo nella scelta finale.

E hanno interpretato la disponibilità a prenderla in considerazione da parte dei suoi alleati come un modo per mantenere buoni rapporti e prendere tempo sapendo che al momento della verità si dovrà cambiare obiettivo.

Gli ambienti internazionali

Può darsi. Però i tre principali fattori che dovrebbero, in concreto, impedire a Berlusconi di arrivare al traguardo non sono così cogenti. O meglio, non lo sono se li si guarda con gli occhi di chi potrebbe votarlo. Primo: la contrarietà o i contraccolpi in ambienti internazionali.

Avrebbero potuto esserci e avrebbero forse potuto pesare con Angela Merkel alleata dei socialdemocratici in patria e saldamente a capo (di fatto) del Partito popolare europeo. La Merkel impegnata a liberare il Ppe delle scorie populiste che ha spinto all’abbandono l’ungherese Viktor Orbán.

Ora la Cdu è all’opposizione in Germania e sovra rappresentata nelle istituzioni europee. I conservatori francesi, dopo il famoso ghigno di Nicolas Sarkozy e la gogna a cui lui stesso è sottoposto con la condanna per corruzione, non hanno certamente voglia di mantenere la stessa postura. I popolari spagnoli hanno fatto sapere in maniera esplicita come la pensano attraverso la figura politicamente più alta in grado che esprimono a Bruxelles: Antonio Lopez, segretario generale del Ppe, che non più tardi di ieri si è lanciato in un vero e proprio endorsement per Berlusconi.

La futura presidente del parlamento europeo, poi, se tutto va come previsto, la maltese Roberta Metsola, nota per le sue posizioni ultraconservatrici, non avrà certamente da ridire sul collega (Berlusconi) che siede tra i banchi del suo stesso gruppo all’Europarlamento. Per non parlare dei conservatori Usa, che rischiano di candidare per la terza volta alla presidenza Donald Trump, anche dopo l’attacco a Capitol Hill.

Ricostruire il centro

Secondo: la contrarietà sotterranea degli alleati interni. I silenzi di Matteo Salvini e i contatti non autorizzati di Giorgia Meloni con Letizia Moratti sono stati considerati indizi che i due preferiscano mantenere il federatore del centrodestra sulla via del declino invece che farlo risorgere, come lui spera. Non è chiaro però per quali ragioni dovrebbero essere realmente contrari.

Le mobilitazioni del Popolo viola che certamente si gonfierebbero e forse darebbero anche un piccolo booster al centrosinistra non sembra possano cambiare gli equilibri elettorali. Mentre Berlusconi al Quirinale significherebbe, anche per loro, il coronamento dell’intera storia iniziata quando il presidente di Fininvest mise insieme la Lega di Umberto Bossi con la destra di Gianfranco Fini. O così verrebbe raccontata. Mentre sancirebbe in maniera definitiva il passaggio della leadership politica della coalizione all’uno o all’altra.

L’ascesa al Quirinale di Berlusconi allargherebbe peraltro lo spazio elettorale potenziale dei vari imprenditori politici che si cimentano con la “ricostruzione del centro”, dagli eredi mancati come Giovanni Toti fino a Italia Viva.

I voti

Terzo: i numeri insufficienti. L’unico elemento fattuale consistente, dietro al quale si è riparata per ora anche Giorgia Meloni. Servono 504 voti per eleggere il presidente, dal quarto scrutinio in poi.

Il centrodestra può contare su 435-440 grandi elettori. Se facessero blocco, ne servirebbero una settantina da convincere tra Italia Viva, ex M5s, varie componenti del Misto e qualche appartenente ad altri gruppi.

Non è una operazione semplice ma nemmeno impossibile in un parlamento pieno di catapultati per caso sul primo e ultimo giro di giostra. Tanto che i rumour sull’efficacia della campagna personalizzata di persuasione condotta da Berlusconi tra le fila degli ex grillini cominciano a diffondersi anche tra i dem.

Ciò premesso, proprio non si capisce perché, dal loro punto di vista, i leader del centrodestra dovrebbero escludere questa ipotesi per considerare varie subordinate che porterebbero al Quirinale figure politicamente leggere del loro campo o addirittura collocate nel campo avverso.

Quindi, a maggior ragione, non si capisce perché i leader del “nuovo Ulivo”, se esiste, invece di puntare dritto su Draghi, continuino a intrattenersi su quelle stesse subordinate o a coltivare la speranza che alla fine Mattarella decida di contraddire il suo ammirevole settennato per toglierli dall’imbarazzo.

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