A fare il presidente della Repubblica in Italia non ci si candida, se non si ha l’improntitudine di un Silvio Berlusconi, e in effetti Mario Draghi non l’ha fatto; ha solo detto, con garbo, che se eletto accetterebbe volentieri la nomina, e ci mancherebbe.

Ciò è bastato a dissolvere la nube di ipocrisia che ne avvolgeva la beatificazione. Come ha scritto Salvatore Vassallo su queste pagine, le forze politiche prodighe di inviti a Draghi a chiarire le proprie intenzioni ora gli fanno il broncio.

Non esistono persone insostituibili, al Quirinale può andare chiunque abbia compiuto 50 anni e goda della cittadinanza. Non è però chiaro perché Draghi vada inchiodato a Palazzo Chigi, donde chi oggi lo dichiara inamovibile è pronto a svellerlo appena possibile.

La paura della fine

Il perché è presto detto: dopo la modifica alla Costituzione che li ha tagliati d’un terzo, centinaia di parlamentari sanno di non poter essere rieletti. Anch’essi voteranno il nuovo presidente; chi non ha un mestiere a cui tornare teme che il passaggio di Draghi al Quirinale sfoci, dopo le dimissioni del governo, in elezioni anticipate. Non sarà nobile, ma è comprensibile. Resti quindi dov’è, faccia il bravo.

Le risposte di Draghi alla stampa delineano il profilo netto di chi non teme di prendere posizione. Quando afferma che il credito d’imposta del 110 per cento sui lavori edilizi comporta un evidente incentivo a spendere di più, tanto paga Pantalone, dice l’ovvio, ma sconcerta chi quei provvedimenti ha voluto e ora ne pretende l’indiscriminata estensione: un vero regalo a chi non ne ha bisogno, a spese di chi di bisogni ne ha.

La  risposta ha un preciso significato politico, che sfugge a chi intona peana al ruolo prioritario della politica. Essa mostra anche il (doveroso) rispetto per le forze parlamentari, al cui volere Draghi s’è dovuto arrendere.

Avrebbe potuto dimettersi, dicono, ma la risposta è che sarebbe stato irresponsabile; per gli stessi, avrebbe almeno dovuto “vedere” il bluff minacciando le dimissioni, ma Draghi è uno di quegli italiani (eh sì, esistono) che le dimissioni le danno, non le minacciano. Anche sugli sgravi fiscali che favorirebbero i più ricchi, Draghi non ha polemizzato, ricordando che, in percentuale sui redditi, hanno avuto di più quelli minori.

Guardando all’Europa

Ci sono grandi opportunità per l’Unione europea e per l’eurozona se va bene, ma anche grandi rischi; l’ago della bilancia per molti temi è a Roma. Si inizia a parlare seriamente di ampliare l’ambito delle decisioni a maggioranza anche in politica estera, ponendo fine al diritto di veto d’ogni stato membro e al conseguente stallo decisionale, fin qui sbloccato solo dalle mediazioni al ribasso dell’ex cancelliera tedesca.

Diviene probabile che la riscrittura del patto di stabilità e crescita ne modifichi radicalmente l’impianto, per affrontare le enormi trasformazioni richieste dal Next Generation Eu; anche il nuovo governo olandese sarà meno “frugale”. Siamo a un tornante storico, dobbiamo darci, per quanto possibile in democrazia, un assetto non volatile.

Se Draghi sarà presidente, a parte gli incubi procedurali (si dimetterà nelle proprie mani?), ci si domanda a chi chiederà di formare il governo, e quanto è probabile che la persona scelta abbia la fiducia del parlamento, mantenendola fino a primavera 2023. Se si prefigura un assetto prevedibile e adeguato, che escluda le elezioni anticipate, Draghi ha forti probabilità.

Il patto

In un’Italia che solo la nostalgia della lontana gioventù induce alcuni a rimpiangere, il garbuglio sarebbe stato sciolto in negoziati segreti, tormentati, in cui balenavano anche armi politiche improprie, ma alla fine sarebbe emersa una soluzione condivisa.

Nell’era delle dirette Facebook e dello streaming, inaugurata vergognosamente nel 2013 dal Movimento 5 stelle ai danni di Pierluigi Bersani, tornare a quei modi sarebbe impossibile. Alla democrazia giova la luce del sole, ma se è troppo forte acceca.

Solo un ampio patto fra forze parlamentari può mandare, alla presidenza della Repubblica e al governo, le persone più adatte, e fra loro compatibili. I partiti possono lavorare - in modo aperto fra loro, ma riservato verso l’esterno - per trovare il binomio adatto ad attrezzare l’Italia alle sfide che ci attendono; lo ha ben detto Enrico Letta. Se per i partiti Draghi al Quirinale va bene, concordino chi può fare il premier; altrimenti estraggano due conigli dal cilindro.

Darsi una stabilità di fondo non vuol dire relegare nell’ombra il dissenso, sempre vitale alla democrazia. Se la politica vuol marcare il territorio, è questo il modo di farlo, irrobustendo un paese dalle tante fragilità che, lasciate a se stesse, farebbero deragliare il progetto europeo.

Su questa strada il primo ostacolo è la conflittualità interna ai partiti. Interessa però anche ai maggiori togliere il pallino alle volatili micro formazioni, aspiranti a fare le mosche cocchiere. Senza questo patto però partirà un flipper imprevedibile. Gli inglesi lo chiamano game of chicken; il pollo sarebbe, con l’Italia, l’Europa tutta.

Draghi ha anche definito con garbo il suo profilo politico. Avercelo è necessario nel ruolo, lo mostra la serie storica dei presidenti, il che non ha impedito a molti di loro di rappresentare degnamente l’unità nazionale.

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