L’attacco alla Rai dopo il concerto del Primo maggio non è una novità. Da quando esistono, le radiotelevisioni pubbliche subiscono le critiche di altri media, ai quali paiono ingombranti, e di politici che si rendono visibili facendo surf sulle chiacchiere correnti. Da qualche anno, tuttavia, le tv pubbliche in Inghilterra, Francia e Germania sono bersaglio dell’onda populista che le attacca.

Vengono considerate agenti delle élite, urbane, globali e dimentiche delle sorti dei “perdenti” che, sparsi per lo più nel mondo rurale e provinciale, s’arrangiano con micro-aziende proprie e piccoli commerci, facendo debiti per scampare la giornata, senza il reddito sicuro di chi dipende dallo stato o da una grande impresa. Sono visioni simili a quelle della folla che il 6 gennaio negli Stati Uniti, in assenza di una tv di stato che facesse da bersaglio (laggiù non serviva e non è mai esistita), ha dato l’assalto al Campidoglio.

Tv e populismo

Per ri-conquistare quei cuori emarginati, le tv pubbliche tedesche hanno dapprima aumentato le riprese di noiosissime assemblee in varie cittadine, ma hanno presto constatato che i giudizi ostili di stampo populista respingevano la cura essendo diventati mondo e lingua a parte, come la Fox News americana o i titoli veementi de’ La Verità e di Libero in Italia.

Per le tv pubbliche è essenziale capire se il populismo è un fenomeno di passaggio – da curare con i pannicelli caldi oppure da cavalcare finché dura – o sia invece qualcosa di più stabile e profondo, destinato a restare molto a lungo nella dialettica sociale e culturale. Da questa analisi consegue la scelta dell’interlocutore collettivo cui rivolgersi: se il corpo organico disegnato dalle grandi ideologie oppure se un coacervo di soggettività malcerte che in un attimo ti prendono a bersaglio. In questo secondo caso, la sfida è di tipo nuovo e richiede non la convinzione del pedagogo illuminato, ma le orecchie e gli occhi spalancati dell’esploratore che s’impegna a cogliere gli ordini di idee latenti nel casino quotidiano.

Sono problemi e dilemmi che una tv pubblica in quanto tale deve porsi mentre le tv commerciali non ne paiono sfiorate, ma non è detto che la furia populista non stia maturando anche per loro, i veri interpreti del consumo globale come valore, con rassegne di corpi perfetti da emulare, sapori trascinanti, fornicazioni con l’autovettura su misura per l’anima d’ognuno.

In mezzo a cotante sfide che affliggono le tv pubbliche d’oltr’Alpe e d’oltre Manica, prima del caso Fedez, la situazione italiana pareva calma, col suo tran tran di rimbrotti dai politici e moralisti d’ogni risma, mentre il governo guardava altrove, salvo fare la cresta sul gettito del canone che viene preteso in conto Rai, ma per un sesto va a sistemare i conti d’altri. Tanta pace voleva dire forse che il populismo italico amava la Rai o quantomeno se ne infischiava proprio mentre il canone in bolletta, coi suoi 18 euro posti in evidenza, faceva infuriare ogni bimestre le folle d’evasori (un quarto di tutte le famiglie) che per mezzo secolo s’erano guardati dal pagarlo?

L’aria di pace era probabilmente fasulla e l’estraneità e l’antagonismo nei confronti della tv pubblica siano diffusi da noi non meno e semmai più che in Inghilterra, Francia e Germania. Finora non avevano però trovato leader che se ne mettessero a capo e conducessero all’assalto della Rai perché qualche ritocco tempestivo alla lottizzazione aveva sempre rabbonito all’istante il più focoso.

Ecco così che la Rai col populismo ci convive perché in realtà ne incorpora qualche convenienza e lo mette per così dire sotto vetro. Non lo analizza e non ne è il bersaglio perché è limitata in radice quanto a visione autonoma e voglia di interloquire, anche provocandola, con la sfera politica e sociale.

Aggiungi che la nostra tv pubblica, finanziata dal contribuente, è da 40 anni, per volontà di legge, parte di un’unica “tv italiana” dominante col nome di Duopolio, in cui i ricavi pubblici della Rai garantiscono nel contempo la floridezza dei ricavi commerciali di Mediaset. Tant’è che in questo ecosistema consociativo si scambiano divi e dirigenti, autori e conduttori e che i dirigenti del Cavallo siano stati spesso nominati da quelli del Biscione. Si tratta oggi di vedere se le tensioni del paese, portate all’estremo dalla pandemia, mettano in discussione questo sistema semi secolare che smorza, senza mai risolverli, dialettiche e problemi.

(Foto: AGF)

Dopo la pandemia

Ci venivano in mente queste cose leggendo su queste stesse pagine un articolo di Pietro Modiano. Sosteneva che con la pandemia l’Italia si è spaccata fra chi vive di reddito sicuro, più o meno contenuto (circa il 70 per cento del popolo italiano conteggiando insieme lavoratori e familiari) rispetto a chi (il restante 30 per cento) campa alla giornata, dal titolare del negozio in centro, al ristoratore, al precario in affanno per il pranzo e per la cena. I primi, chiusi in casa, hanno aumentato come non mai il risparmio; i secondi gli hanno dato fondo e dovranno soffrire ancora molto.

Tradotto il tutto in chiave politica e sociale, parrebbe che l’Italia del lavoro autonomo, o almeno quella vasta parte usa a ritenere lo stato il problema principale da cui scampare anche tuffandosi nel nero ed evadendo le tasse e le gabelle, o verrà rapidamente integrata nei progetti di riforma dell’Italia oppure sarà ancor meno propensa a tollerare il valore, anche simbolico, di quei 18 euro bimestrali che gli sembra di sprecare nella fornace della Rai.

Hai voglia allora a compiacerti perché con la pandemia tutti i servizi pubblici televisivi, Rai compresa, hanno goduto di un’impennata negli ascolti e che qualcuno già annusi una nuova e strutturale ondata di favore, giovani compresi, perché la pandemia avrebbe educato ai vantaggi della disciplina collettiva anche i populisti più incalliti. Il sobbalzo dell’audience c’è stato, ma era facile aspettarselo dalla gente chiusa in casa ad attendere gli ultimi bollettini del contagio. Infatti quell’onda si sta rivelando momentanea e ogni pubblica tv si trova spalle al muro, senza rendite di stima e obbligata a meritarsela giorno per giorno, programma per programma. Incidentalmente, apprendiamo da The Economist, che la stima cresce nella misura in cui il broadcaster pubblico sembri davvero e da lungo tempo indipendente.

Probabilmente questo criterio di giudizio vale anche da noi e non solo in Inghilterra. Ognuno può dedurne come ovvia conseguenza che una tv remissiva e pacioccona, paralizzata dal pluralismo burocratico, sia priva degli occhi e delle orecchie necessarie per comprendere il paese e meritarsene il favore. Figlia di nessuna e preda delle rabbie della cospicua minoranza che da sempre la sopporta a malapena o le inveisce contro per principio. Anche cambiando, come avverrà tra breve, i corpi assisi nel Consiglio di amministrazione dell’azienda.

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