La radiografia della “crisi dei partiti” si mostra nitida ai cultori della materia televisiva seguendo in streaming le audizioni tra i vertici Rai e la commissione di Indirizzo e vigilanza istituita nel 1975 quando la lottizzazione degli incarichi è stata allargata dall’area di governo all’intero parlamento.

I lavori non sono tornei di filosofia dei media, ma si svolgono pancia a terra, prendendo ognuno le parti della sua fazione radicata nell’azienda e sbandierando le irritazioni di questa o quella tribù degli elettori. Dubitiamo che quel gruppo di distinti geometri, avvocati e professori seduti in Commissione trovi appagante passare il tempo in questo modo, ma è l’unico che resta finché la politica non è a favore di progetto, ma progetto di favore.

Nessuna legge

Di tanto in tanto echeggia in quell’aula, è successo spesso anche nell’audizione dell’8 gennaio, l’affermazione che il parlamento sia l’“editore” della Rai, anche se non c’è nessuna legge che lo scriva. Ma anche prendendo per buona una tale autoaffermazione, si tratta di capire se il parlamento sia editore tiranno o di garanzia. Finora è stato indisturbato il primo, ma da quando i nuovi vertici, pur scappellandosi ossequienti, hanno cominciato a mettere qualche puntino sulle i, sono sprizzate immediate le scintille.

“Mettere i puntini sulle i” consiste, come è emerso nello streaming, nell’attenersi alle responsabilità fissate per ciascuno dalle leggi, invece che confonderle nella consociazione generale. Un puntino molto grosso è ad esempio, escludere di redigere un bilancio di previsione basato sul passivo così da accontentare ogni richiesta, salvo lasciarla, in vista della chiusura dei conti veri, a bocca asciutta.

Frana in questo modo il mercato delle promesse, s’afflosciano le conquiste di bandiera destinate al lancio stampa del momento, tutti vengono costretti al tavolo dei conti dell’azienda che sol per questo sposta il baricentro delle decisioni al proprio interno.

Un puntone enorme posto dritto sopra il cuore della Rai è, ovviamente, che gli spazi informativi sono soggetti come tutti al calcolo del rapporto fra costi e benefici. Ma questa oggettivizzazione dei problemi provoca sfracelli nelle consociazioni correnti fra parlamentari e redattori (ma non è diverso pensando ai fremiti del campo fornitori e alle star amiche di famiglia).

Abbiamo perfino udito un senatore sibilare: «Se la Rai non fa quello che indichiamo noi, in quanto editore, potremmo perdere sul serio la pazienza». Si riferiva il nostro (come tutti gli altri intervenuti meno un paio) non al lanciarsi con ogni forza e priorità verso le praterie digitalizzate, ma al mantenimento della edizione notturna dei Tgr, che costa molto, rende nulla e blocca risorse di valore. 

Ma questo era in fondo un gentiluomo col solo torto di conoscere la legge a orecchio e per sentito dire, tanto più se utile al wishful thinking di tanti come lui. L’alato dibattito ha per lunghi tratti ceduto il campo ai siluri anti Report, nella persona di Sigfrido Ranucci a seguire una lettera anonima che narrava di molestie sessuali di cui l’audit Rai non ha trovato (riferito dall’amministratore delegato) alcun riscontro. In altri termini, povera Rai, si trova ad avere non l’editore di garanzia, ma quello a carico.

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