Un invito ai governi nazionali e alle istituzioni accademiche e di ricerca a promuovere l’arrivo e l’inserimento di ricercatori in fuga da contesti ostili alla scienza. Per non parlare solo di scenari caratterizzati da morte e distruzione, ma anche di visioni basate sull’incremento del sapere
Quello che sta succedendo in questi giorni negli Stati Uniti è allarmante. In questo paese, che per decenni ha rappresentato un punto di riferimento per la ricerca mondiale, si sta verificando un progressivo indebolimento delle istituzioni scientifiche federali. Tagli ai finanziamenti, riduzioni di personale nei centri pubblici d'eccellenza, limitazioni alla libertà dei ricercatori: tutto indica una crescente politicizzazione della scienza e una riduzione del ruolo della conoscenza nelle decisioni pubbliche.
Sulle università e sulla libertà di ricerca negli Stati Uniti si sta pertanto svolgendo una partita cruciale. Il programma Maga, come delineato esplicitamente da Donald Trump già nella campagna per le recenti elezioni presidenziali, prevede la decostruzione dell’intero impianto universitario in quanto incubatore di “eversione anti americana”. Come sua immediata misura di attuazione è in corso una sistematica smobilitazione, per motivi prettamente ideologici, del finanziamento dei grant e delle borse che sostengono il lavoro di centinaia di migliaia di ricercatori, docenti, studenti e dottorandi, che proprio per questo stanno pensando di continuare il loro lavoro altrove, come dimostra l’appello, firmato all'inizio di aprile da 1.900 ricercatori americani, che chiedevano di “fermare l'assalto in atto alla ricerca”.
L’università di Harvard
L’università di Harward sta contrastando con decisione questa politica e ha opposto un netto rifiuto ai diktat dell’amministrazione. La sua risposta rappresenta una significativa inversione di rotta rispetto al cedimento di altri Atene, anche prestigiosi, che ai sono piegati alla Casa Bianca, accettando l’eliminazione di facoltà e la riformulazione di programmi di studi.
Quello che sta succedendo oggi negli Stati Uniti richiama un profetico intervento del l 1952 di Julian Huxley il quale, riferendosi al caso Lysenko e al regime staliniano in cui maturò, scriveva che la scienza non può svilupparsi ed espandersi se non in certe condizioni materiali ed entro una particolare atmosfera morale ed intellettuale. Ci sono volute migliaia di anni per costruire le basi di libertà di indagine e di critica indispensabili alla scienza. Ciò è stato possibile solo col formarsi della prassi democratica, coadiuvata dai progressi nella tecnica fisica, nello standard di vita e nell’educazione. L’atmosfera indispensabile al progresso della scienza può, però, essere facilmente distrutta o avvelenata, per ignoranza o per pigrizia mentale, dal pregiudizio o da interessi mascherati o dal potere delle autorità.
Democrazia e scienza
Questa lucida analisi ha il merito di evidenziare che la democrazia e la scienza condividono un destino comune dato il loro stretto collegamento anche per quanto riguarda i rispettivi atti di nascita. Come viene ricordato in un Rapporto scritto nel 2007 su mandato della Commissione dell’UE da un gruppo di esperti, coordinato da Brian Wynne e Ulrike Felt, tra i tanti fattori che sono all’origine e alla base della nascita della scienza moderna vi è certamente anche la contrapposizione tra il Leviatano dittatoriale di Hobbes, il modello di autorità politica in assoluto più antidemocratico, e la visione dell’incipiente rivoluzione scientifica, orientata in senso opposto.
A sostegno del nesso tra questi due aspetti va rammentato che sia la scienza, sia la democrazia richiedono ragioni adeguate, argomentazioni coerenti, criteri rigorosi di prova nonché onestà e trasparenza. Per essere in sintonia con le finalità della propria missione e con le sue colonne portanti, una società democratica ne deve rispettare e riprodurre le condizioni necessarie e i tratti distintivi che le caratterizzano in profondità, vale a dire il carattere dinamico, la disponibilità a mettersi continuamente in discussione, la capacità di affrontare il nuovo e l’imprevisto e di strutturarsi secondo modalità che assicurino la pluralità e un diramarsi di potenzialità differenti. L’Europa è riuscita nel delicato compito di educare sé stessa, realizzando una sorta di circolo virtuoso tra ricerca, democrazia ed educazione.
Il “marchio di fabbrica” della democrazia è stato ben evidenziato da Cornelius Castoriadis, il quale l’ha definita come quel regime che rinuncia esplicitamente a ogni garanzia ultima e che non conosce altra limitazione che la propria autolimitazione. Ovviamente, essa può trasgredire questa autolimitazione, come è spesso successo nella storia, e può quindi inabissarsi o ribaltarsi nel suo contrario. Ciò significa che la democrazia è il solo regime politico che rischia, che affronta apertamente la possibilità della propria autodistruzione.
È in questo contesto di attacco alla libertà e al pensiero critico che ha preso forma ed è maturata l’idea del Manifesto di Foligno e Fabriano “Rebrain Europe”. Esso è, contestualmente: un invito ai governi nazionali e alle istituzioni accademiche e di ricerca a promuovere con le misure necessarie l’arrivo e l’inserimento di ricercatori in fuga da contesti ostili alla scienza; e una sollecitazione ai cittadini e scienziati a domandarsi perché parlare solo di ReArm Europe, e quindi di scenari caratterizzati da morte e distruzione, e non anche di ReBrain Europe, che propone visioni basate sull’ incremento del sapere e sull’arricchimento che ne consegue.
Non dimentichiamo, a proposito di visioni, che “noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni” e che proprio dai sogni è sovente scaturita la crescita dell’uomo. La speranza è un farmaco, come ci insegna un neurologo del calibro di Fabrizio Benedetti.
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