Il referendum dell’8 e del 9 giugno ha visto protagonisti, ancora una volta, coloro i quali non hanno votato. È una libertà democratica anche astenersi. Ma, ora che il referendum si è tenuto, può risultare più chiaro spiegare cosa significhi esercitare la libertà di voto attraverso l’inerzia, cioè il non-voto.

I cittadini, durante la pandemia, hanno sperimentato la restrizione delle proprie libertà costituzionali, avvertendone forse solo in quel momento l’importanza. Alcuni di essi hanno probabilmente meno chiara la progressiva erosione dei loro diritti democratici determinata dal cattivo funzionamento delle istituzioni. Ci si riferisce alla graduale irrilevanza del parlamento, ove siedono coloro i quali i cittadini hanno votato, a causa di esecutivi la cui azione è sempre più debordante.

Basti pensare all’abuso del decreto-legge. Vi si può ricorrere solo «in casi straordinari di necessità e di urgenza» (art. 77 Cost.), ma da tempo i decreti sono usati dai governi come strumenti ordinari, per soddisfare le proprie urgenze politiche. Lo si è visto da ultimo con il disegno di legge Sicurezza, trasformato in decreto-legge senza che fossero fornite le ragioni di necessità e urgenza, ma con la motivazione che ormai si era perso troppo tempo nella discussione parlamentare.

Un vero e proprio “scippo” al Parlamento, con dubbi di legittimità nel metodo, oltre che nel merito, e il conseguente sbilanciamento dell’equilibrio tra poteri pubblici.

Il continuo e ingiustificato utilizzo della decretazione d’urgenza fa sì che i 60 giorni entro cui può avvenire la conversione permettano a un solo ramo del Parlamento l’esame reale del provvedimento, per non parlare del ricorso alla questione di fiducia. Inoltre, il fatto che l’attività prevalente del parlamento sia quella di convertire i decreti del governo fa sì che ad esso residui un tempo marginale per svolgere la propria funzione legislativa. Con lo svilimento del ruolo dei rappresentanti dei cittadini, questi ultimi finiscono per contare sempre meno.

Tornando al referendum dell’8 e del 9 giugno, quei governanti che stanno svuotando di senso la democrazia rappresentativa hanno invitato i cittadini all’inerzia nella democrazia diretta, svuotando di senso pure questa.

È una scelta legittima non votare a un referendum - lo si ribadisce - e sono legittimi pure gli inviti all’astensione, formulati da esponenti di questo esecutivo, così come di altri in precedenza.

Ma giocare con l’astensionismo, fino al punto di conteggiare tra le fila di chi si astiene per far fallire la consultazione anche quelli che non votano per disinteresse o pigrizia, finisce per svalutare l’autorevolezza e il ruolo delle istituzioni.

Politicizzare il referendum, non affrontando nel merito i temi oggetto dei quesiti, ma invitando semplicemente all’astensione, lo trasforma in una questione di tifoserie che svilisce il significato più elevato della democrazia. E se i cittadini accolgono l’invito e non esercitano attivamente i propri diritti democratici forniscono un alibi per sopprimerli o almeno per renderne sempre più difficile l’esercizio stesso.

Se le persone avessero ben chiaro il ricordo di cosa significhi non poter esercitare diritti e libertà, com’è accaduto in pandemia, forse avvertirebbero in modo palese l’importanza di una condotta attiva - andare alle urne - rispetto all’inerzia, per determinare l’esito referendario. Tale importanza risulterebbe ancora più chiara se avessero presente il periodo storico precedente a quello in cui la Costituzione vide la luce. Perché è vero che non votare è una libertà. Ma quella di votare, e di votare come si vuole, ha tutt’altra valenza per chi sia consapevole di cosa significhi non poterlo fare.

«È l’esercizio democratico che sostanzia la nostra libertà», ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alle celebrazioni per l’ottantesimo anniversario della Liberazione.

Forse è proprio da qui, dal valore dell’esercizio attivo dei diritti civili, che bisogna ripartire.

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