Non ci sono più le campagne elettorali di una volta. Non soltanto le gloriose campagne elettorali degli anni Cinquanta e Sessanta, dominate dai partiti di massa, ma nemmeno quelle da Seconda Repubblica segnate dalla netta contrapposizione fra centrodestra e centrosinistra.

A pochi giorni dal doppio appuntamento nazionale (il referendum) e locale (le elezioni regionali), la campagna elettorale a cui stiamo assistendo è il perfetto specchio di una scena politica liquida, o meglio liquefatta, e delle difficoltà dei partiti, anche nell’agorà digitale.

Post di comizi affollati e i selfie sorridenti non servono a molto. Il pubblico dei social è distratto da alti temi, dal Covid-19 al brutale omicidio di Colleferro. In cima alla classifica dei trending topic, cioè gli argomenti sui quali si concentra la discussione digitale, assieme a molte frivolezze ci sono questioni di vita reale: #ilprimogiornodiscuola.

Che le campagne referendarie abbiano fra le loro caratteristiche quella di rompere le coalizioni e i fronti politici è noto sin da quella per l’abolizione del divorzio del 1974. Oggi, però, la frattura attraversa non solo gli schieramenti di governo e opposizione ma i singoli partiti.

Sul quesito referendario ha rischiato di spezzarsi la maggioranza di governo: il posizionamento del Pd sul fronte del Si, con libertà di dissenso interno, ha evitato una deflagrazione della maggioranza ma non ha contribuito a fare chiarezza. Sì e No si contano anche in Liberi e Uguali, mentre Italia Viva ha lasciato libertà di voto. Altrettanto variegata appare l’opposizione.

L’unità di un ipotetico fronte del Sì è stata infranta da Silvio Berlusconi che cerca di differenziare Forza Italia dalle forze populiste. L’uscita di Giancarlo Giorgetti a favore del No ha poi rotto la compattezza della Lega, introducendo una libertà di dissenso che non ha precedenti nella storia del partito. Uno smarcamento tattico che forse è il segno di differenze strategiche sotterranee.

Soltanto il Movimento Cinque stelle è unito intorno quella che rimane una delle sue poche bandiere identitarie. Chi si esprime per il No rischia sanzioni.

Fatta eccezione per i Cinque stelle, nessun partito si è impiccato a un risultato e quindi, se non potrà rivendicare la vittoria, potrà sempre attualizzare il commento di Pierluigi Bersani al risultato del 2013: “Siamo arrivati ultimi, ma non abbiamo perso”.

Inoltre, nessuno dei partiti, provati da una drastica riduzione dei contributi pubblici, ha interesse a investire davvero nella campagna elettorale.

C’è una analoga frammentazione nella campagna per le regionali. Solo in Liguria le due principali forze di maggioranza, Pd e M5S, appoggiano un candidato comune: Ferruccio Sansa, che però non ha il sostegno di Italia Viva che punta su Aristide Massardo.

Nelle altre cinque regioni che prevedono l’elezione diretta del presidente - Veneto, Campania, Puglia, Toscana e Marche - questa convergenza non è stata possibile per riottosità delle realtà locali. In Veneto e Puglia il Centrosinistra presenta Arturo Lorenzoni e Michele Emiliano, non appoggiati da Italia viva che punta su Daniela Sbrollini e Ivan Scalfarotto. Solo in Toscana e nelle Marche il centrosinistra ha trovato candidati comuni: Eugenio Giani e Maurizio Mangiardi.

Il risultato di questo puzzle elettorale, frutto di antagonismi e strategie spesso nazionali, è che partiti che sostengono un candidato in una regione sono avversari, o comunque non alleati, in un’altra. E dal momento che rischiano di drenare voti a favore di candidati che spesso non hanno alcuna possibilità di vittoria, rappresentano avversari pericolosi più del principale competitor. L’avversario più ostico per Emiliano in Puglia, non è Raffaele Fitto del centrodestra, bensì Scalfarotto i cui pochi voti potrebbero risultare decisivi.

Meno scomposto il quadro delle candidature del centrodestra che sostiene unito i candidati leghisti Luca Zaia in Veneto e Susanna Ceccardi in Toscana, il forzista Stefano Caldoro in Campania, Raffaele Fitto e Francesco Acquaroli di Fratelli d’Italia in Puglia e nelle Marche, infine Giovanni Toti della lista Cambiamo in Liguria.

Mentre Meloni guarda ai possibili riflessi sul governo, Salvini ha compreso a sue spese in Emilia Romagna che non sempre conviene dare valore nazionale a una elezione locale.

Nel pieno di due campagne elettorali deboli e confuse, infine, ai cittadini di Roma può succedere di imbattersi in una serie di maximanifesti di Matteo Salvini per le elezioni amministrative della primavera 2021.

Una campagna in anticipo di svariati mesi, senza che si sappia neppure chi sarà il candidato. Una campagna quasi metafisica, come talvolta rischia di apparire gran parte del confronto politico.

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