Dopo un anno di pandemia, l’attività scolastica è ancora quella connotata da maggiore incertezza. La confusione è totale, fra provvedimenti centrali e regionali, dichiarazioni del Comitato Tecnico Scientifico (Cts), decisioni di alcuni Tar e altro. Giorni fa la Conferenza delle Regioni ha chiesto un incontro al ministro Speranza per dirimere la questione. È quindi opportuno qualche chiarimento circa la perdurante ipocrisia sulla scuola.

Domenica scorsa il Cts è stato convocato d’urgenza per esprimersi a posteriori sull’ultimo Dpcm, che dal 18 gennaio prevede la didattica in presenza - almeno il 50 per cento e fino al 75 per cento - nelle scuole secondarie di secondo grado, salvo che nelle zone rosse.

Il Comitato si è detto favorevole, sottolineando il grave impatto negativo che la didattica a distanza ha sull’apprendimento e sulla strutturazione psicologica degli studenti. Il Cts ha anche ribadito la responsabilità delle regioni nel disporre le chiusure e ricordato l’istituzione di un tavolo coordinato dai prefetti per le misure organizzative necessarie, prevista da un Dpcm di inizio dicembre.

La ministra dell'Istruzione ha commentato positivamente il parere del Cts. Da mesi Lucia Azzolina chiede il rientro in classe e stigmatizza le decisioni di presidenti di regione. Ma la possibilità per questi ultimi di adottare provvedimenti più restrittivi di quelli del governo deriva dalla norma di un decreto-legge dello stesso esecutivo di cui la ministra fa parte.

Cosa si sarebbe potuto fare, oltre che dolersi per le ordinanze di chiusura delle scuole? Il governo le avrebbe potute impugnare, come hanno fatto alcuni genitori, ai quali diversi tribunali hanno dato ragione.

Lasciare alle famiglie l’onere, anche economico, di far valere il diritto all’istruzione dei figli è stata un’altra delle mancanze dell’esecutivo.

Le pronunce dei tribunali

Con ordinanze dell’8 gennaio, Lombardia ed Emilia-Romagna avevano disposto il ricorso alla didattica a distanza per il 100 per cento nelle scuole superiori. Le decisioni erano state motivate con la necessità di arginare la diffusione del virus attraverso la limitazione degli spostamenti di studenti e personale scolastico: da un lato, per contenere il carico dei mezzi pubblici; dall’altro lato, per evitare occasioni di probabili assembramenti nei pressi delle scuole.

Il 13 gennaio il Tar Lombardia ha sospeso l’efficacia dell’ordinanza, rilevandone «l’irragionevolezza»: a fronte di un pericolo solo ipotetico di assembramenti, si «vieta radicalmente la didattica in presenza», senza dimostrare che essa sia «causa in sé di un possibile contagio».

Il Tar si spinge anche ad affermare che un’ordinanza regionale non dovrebbe intervenire su situazioni già disciplinate con Dpcm.

Il 14 gennaio, il Tar dell’Emilia Romagna, in conformità al Tar lombardo, ha reputato che le finalità del divieto di didattica in presenza - «evitare assembramenti e sovraffollamenti» - vadano perseguite «con misure che incidono “a monte” sul problema del trasporto pubblico e “a valle” con misure organizzative quali la turnazione degli alunni e la diversificazione degli orari di ingresso».

Inoltre, nell’ordinanza regionale manca ogni «riferimento a dati o indici specificatamente e univocamente attinenti al settore della scuola secondaria»; non «sono indicati fatti, circostanze ed elementi di giudizio» che indurrebbero a una previsione certa di un incremento dei contagi con la didattica in presenza; né risulta che il virus si diffonderebbe a scuola «più che in altri contesti».

Il 15 gennaio è pure intervenuta una decisione del Tar del Friuli Venezia Giulia, che ha sospeso l’ordinanza regionale del 4 gennaio con cui si disponeva la didattica a distanza delle scuole fino a fine mese.

Secondo il tribunale, essa determina «una disparità di trattamento rispetto alle aperture di altre attività», invece permesse; viola il diritto a un’adeguata attività didattica, prevista anche nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, oltre che nella Costituzione; lede il diritto alla salute «fortemente compromesso» dalla didattica a distanza, che impedisce di «intrattenere le normali relazioni sociali tipiche di quell’età».

Il Tar sottolinea pure il trattamento «diverso e più dannoso rispetto ai giovani di pari età residenti in altre regioni», i cui dati epidemiologici non sono «significativamente diversi e peggiori e che sono collocate in analoga fascia di rischio».

Da ultimo, ieri il Tar Campania ha sospeso l’ordinanza dello scorso 16 gennaio, con cui il presidente della regione aveva disposto il ritorno in classe solo delle primarie fino alla terza elementare. Secondo il tribunale, che in precedenza aveva respinto ricorsi contro analoghi provvedimenti, i dati dimostrano «che il contagio si sviluppa anche quando le scuole sono chiuse (durante le vacanze natalizie)» e da ciò discende il «legittimo dubbio sull’effettiva idoneità della misura restrittiva dell’attività scolastica in presenza ai fini della riduzione del contagio».

Le ipocrisie sulla scuola

Il presidente dell’Emilia Romagna si è adeguato alla pronuncia del Tar e così pare farà anche quello della Campania, ma solo per le elementari; il presidente del Friuli Venezia Giulia ha invece ribadito, con una nuova ordinanza, la chiusura delle scuole superiori fino a fine mese; mentre gli studenti lombardi non sono tornati in presenza poiché intanto la regione è diventata zona rossa.

Altre regioni procedono in ordine sparso, chiudendo le scuole per periodi differenti. Il consulente del governo, Walter Ricciardi, si dichiara comunque contrario alle riaperture, data la situazione sanitaria. Ora si attende il confronto fra Speranza e la Conferenza delle regioni.

Le decisioni di chiusura fanno prevalere il principio di precauzione sul diritto all’istruzione, per coprire le carenze nella predisposizione di quanto necessario al rientro in presenza con condizioni di sicurezza, i trasporti prima di tutto.

La mancanza nelle ordinanze regionali di chiare e solide motivazioni epidemiologiche, che comprovino il nesso di causalità fra aumento dei contagi e presenza a scuola, ne rende palese l’uso improprio. Il governo le avrebbe potute impugnare poiché non fondate su una precisa e documentata giustificazione; altrimenti, avrebbe potuto rivedere la norma che consente alle Regioni di adottare misure più restrittive di quelle dei Dpcm. Invece, non ha fatto nulla.

Il sospetto è che il caos attuale, tripudio della frammentazione di prerogative e responsabilità, è una scelta deliberata del governo: sovrapposizione tra competenze centrali e locali, sancite in modo poco chiaro, anche con l’intrico fra atti normativi e amministrativi; iniziativa giudiziaria lasciata alle famiglie; tribunali chiamati a chiarire, ma le cui pronunce finiscono per creare confusione ulteriore, intrecciandosi ad altri provvedimenti.

Qual è la conseguenza? Lo svilimento dell’istruzione, che sempre più si stenta a riconoscere nella sostanza come diritto fondamentale.

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