Sin dall’inizio della pandemia, con decreti-legge sono stati conferiti poteri molto ampi – “pieni poteri”, almeno fino a fine marzo – al presidente del Consiglio, che li ha esercitati con propri decreti (Dpcm), sancendo restrizioni a diritti e libertà anche coperti da riserva di legge.

Ciò è stato favorito da un parlamento che specie nei primi mesi si è come “dissolto”. Giuseppe Conte non è sembrato mai valutare davvero costi e benefici delle proprie scelte.

Non avendo creato un sistema di raccolta di dati su luoghi e attività a rischio, egli ha continuato a dettare regole senza un effettivo vaglio di proporzionalità, necessarietà e adeguatezza delle limitazioni rispetto all’evolversi della situazione.

Un’opinione pubblica frastornata non ha preteso l’uso di strumenti normativi idonei, motivazioni trasparenti e chiarimenti sui criteri usati per bilanciare interessi, né ha puntualmente chiesto conto dei risultati.

I Dpcm si sono così tradotti in una sequenza di atti dei quali è stato difficile tenere il conto e seguire la logica, che hanno mescolato obblighi e raccomandazioni, nonché richiesto la traduzione operativa con circolari e Faq, usate per dare o addirittura mutare il senso alle norme.

Un intrico di fonti diverse - decreti-legge, Dpcm e ordinanze - hanno al contempo regolato la vita delle persone, intervenendo sempre all’ultimo momento, senza consentire loro alcuna organizzazione. Ciò ha ingenerato confusione, mentre servivano le garanzie che solo la certezza del diritto può dare, quando mancano certezze su tutto il resto.

© Riproduzione riservata