Sono nata a Piacenza, in via Giuseppe Manfredi, politico e patriota. Dopo aver lasciato quella strada piena di nebbia, ho cambiato alcune città, ho fatto parecchi traslochi ritrovandomi in vie dedicate a pittori, scultori, inventori. Non mi è mai capitato, però, di abitare in una via che raccontasse la vita di una donna. Nella toponomastica italiana, su 100 nomi di vie, strade e piazze dedicate a personaggi celebri o meritori, solo 8 sono femminili.

Se facciamo il gioco degli stradari, prima arrivano gli uomini, poi gli eventi storici, quindi le diverse geografie del mondo, piante e animali à gogo e, alla fine della fine, le donne.

Anche qui c'è una gerarchia: più della metà di questa risibile minoranza è incentrata su figure edificanti come le sante, le madonne, le martiri, quindi c'è la rappresentanza innocua di principesse, regine, nobildonne. Ciò che rimane se lo spartiscono scrittrici, artiste, protagoniste della vita politica, un po’ a casaccio. Solo due scienziate: Marie Curie e Maria Montessori.

C'è tuttavia un'eccezione. Alle scienziate, alle imprenditrici e alle artiste che hanno piegato regole e aperto strade sbarrate fino a quel momento, alle donne, sono dedicate le vie della zona industriale di Guspini, in Sardegna, la prima al mondo con una toponomastica tutta al femminile.

Le zone industriali, spesso, i nomi non li hanno proprio (figuriamoci le vie), come a dire che è meglio dimenticarsi di loro. Sono posti in cui non si va per piacere, se ci si passa non ci si ferma, se ci si nasce vicino si vuole scappare. Portatrici di oblio, le zone industriali puzzano di dimenticatoio o, peggio, di scempio e scelleratezza.

L’eccezione sarda

A Guspini, nel territorio del Medio Campidano, una delle province più povere d’Italia, non è così. Tutto è cominciato 30 anni fa: le aziende volevano avere un indirizzo, perché esistere geograficamente significava, prima di tutto, “sentirsi parte”.

Ci sono voluti anni di rifiuti e attese, carte bollate e lentezze sfinenti. Poi l’intuizione di Daniela Ducato, premiata di recente anche da Fortune come imprenditrice più innovativa d’Italia: proporre una toponomastica tutta al femminile. L'idea ha convinto sia le imprese che le istituzioni locali, e ha reso possibile qualcosa che nessuno aveva mai immaginato potesse succedere.

Dalla negazione alla restituzione. Dagli isolanti termici alle pitture, ogni prodotto dell'azienda di Daniela Ducato viene creato con le eccedenze e gli scarti vegetali, animali e minerali. Sembra la prosecuzione ideale delle storie delle 50 amiche geniali a cui sono dedicate le vie, le piazze e le strade di questa zona industriale. 

“La Sardegna è terra di confine", mi racconta, "Cagliari è più vicina a Tunisi che non a Roma, geograficamente. Il mare è un mare che unisce e non separa”. Mentre continua a parlare, mi spiega che l’odore del mare oggi è così forte perché soffia il maestrale, è un profumo che viene preservato come il cielo notturno e la biodiversità botanica, qui, dove tutto è pesticidi free.

Dice ancora: “Dare un nome alle cose, ai luoghi, aiuta a restituire identità, e a ritrovarsi. La toponomastica no gender gap si può fare ovunque, non costa, è solo una scelta”.

La prima via che ha unito il paese alla zona industriale è dedicata a Maria Lai, l'artista che con le stoffe, il legno, il sughero, i fili ha fatto miracoli legando storie in modo prodigioso. Tra le altre 49 donne troviamo Grace Murray Hopper (pioniera della programmazione informatica), Eva Mameli Calvino (matematica e botanica), Elvira Notari (prima donna regista cinematografica d’Italia). Ma ci sono soprattutto le donne a cui spesso sono stati negati o sottratti i meriti (compreso il premio Nobel): in certi casi non hanno un nome, e spesso nessuno spazio nei libri di storia.

Le mie preferite sono “Le Donne delle querce”. Sono state le querce (e l’ingegno) a garantire la sopravvivenza di molte donne e bambine della miniera di Montevecchio, un tempo la più grande riserva d’argento d’Europa. A lavorare ci andavano scalze – per molte di loro, il primo paio di scarpe è arrivato a 40 anni – camminando tra le fogne a cielo aperto.

Così, per curare le ferite, avevano imparato a utilizzare le foglie, il muschio quercino, la corteccia o i gusci delle ghiande: tutto serviva per realizzare unguenti miracolosi che disinfettavano e suturavano.

Sempre le querce sono state amiche delle donne del popolo Yao, della provincia di Hunan, in Cina. Nü shu (letteralmente "scrittura delle donne") è il linguaggio segreto, inventato da queste coraggiose che, dopo la conquista cinese del XVII secolo, si videro strappare le parole, venendo meno per loro il diritto all’istruzione e alla scuola.

Da matriarcale che era, la loro società divenne patriarcale, così le madri e le figlie, per avere un linguaggio che raccontasse la prigionia, affinché nulla venisse dimenticato, escogitarono un nuovo alfabeto. Lo elaborarono prima attraverso il canto, insegnandoselo le une con le altre nei momenti di lavoro comune, e poi iniziarono a scrivere ovunque fosse possibile sfuggire al controllo degli uomini.

Cucivano le parole sui tessuti, le nascondevano tra la seta e la lana delle vesti che indossavano, come se si trattasse di ricami, le incidevano nel legno, ma per farlo occorreva trovare un inchiostro accessibile. Non potendo avere la china, ne crearono uno indelebile, grazie alla quercia. E attraverso la quercia, le parole Nü shu sono arrivate a noi.

Una donna per ogni strada: il progetto, partito nel maggio 2019, è stato inaugurato oggi. Camminare tra tutte queste sorelle è bellissimo.

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