Ad aprile in pochi hanno notato che dal Piano nazionale di ripresa e resilienza nella versione del governo Draghi era sparita la promessa di introdurre un salario minimo in Italia. Oggi il tema torna sull’agenda un po’ a sorpresa, visto che le proposte di legge ci sono ma restano insabbiate in parlamento da quasi tre anni: il presidente dell’Inps Pasquale Tridico rilancia la soglia di 9 euro, la Cgil di Maurizio Landini che ne ha sempre temuto le conseguenze sul sistema dei contratti collettivi nazionali ora si dichiara favorevole, Pd e Cinque stelle appoggiano, la Confindustria propone un poco dettagliato “patto sociale” nel quale il salario minimo potrebbe essere parte.

In una contrapposizione più ideologica che pragmatica, tutti discutono se sia giusto o meno introdurre un salario minimo. Mentre l’unico dibattito sensato dovrebbe essere quello sulla soglia (9 euro sono tanti o pochi?) e soprattutto sulle conseguenze distributive. Perché il salario minimo è una misura che redistribuisce reddito, qualcuno ha benefici, altri pagano costi elevati.

Le critiche da destra

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Da destra il principale argomento contro il salario minimo è il seguente: se si aumenta il costo del lavoro, le imprese si trovano davanti a due scelte entrambe spiacevoli.

Prima opzione: continuano a impiegare la stessa quantità di lavoro, perché non possono fare diversamente (impossibilità di licenziare, numero minimo di persone per tenere aperta la produzione), e dunque affrontano costi più alti che riducono i profitti o le spingono verso bilanci in rosso. Seconda opzione: le imprese scelgono di impiegare meno lavoro, perché è diventato più costoso, e riducono la produzione o lo sostituiscono con altri fattori di produzione, cioè il capitale (macchinari, computer ecc.). Tutto questo rende l’economia meno competitiva e potrebbe ridurre la quantità di lavoro impiegato.

Inoltre, la produttività di ha un lavoro poco sopra la soglia del salario minimo, diciamo che guadagna 10-12 euro all’ora, potrebbe ridursi perché il lavoratore sa che, in caso di licenziamento o perdita del posto, troverà fuori dall’azienda lavori con remunerazioni non troppo differenti.

Il rapporto annuale dell’Inps dello scorso anno ha riassunto una letteratura di ricerca economica che sembra fugare i timori dell’impatto negativo sull’occupazione: dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, si vede come aumenti del salario minimo abbiano impatti negativi minimi o nulli sul numero di occupati. Non è vero che le imprese assumano meno persone se il salario minimo cresce, probabilmente perché il costo dei lavoratori coinvolti è più basso di quello massimo che l’azienda è disposta a pagare.

Però ci sono conseguenze distributive: secondo i calcoli dell’Inps, un salario minimo da 9 euro all’ora comporterebbe costi aggiuntivi netti per le imprese per 4,6 miliardi più 1,6 miliardi di contributi sociali da pagare, ma i lavoratori beneficiati avrebbero un aumento del reddito disponibile di 3,3 miliardi, che in parte diventerebbero consumi e risparmi su sussidi anti-povertà, col risultato di un aumento del gettito per lo stato di 1,5 miliardi.

Non è però detto che i 4,6 miliardi di aggravio per le imprese si traducano in minori profitti: quelle che ne hanno la possibilità, scaricheranno il rincaro in prezzi più alti, quindi saranno almeno in parte i consumatori a sostenere il costo dell’aumento del salario minimo.

 Visto che i settori più toccati dalla riforma – perché quelli con salari più bassi – sono agricoltura e lavoro domestico, l’impatto sarebbe probabilmente su prodotti al supermercato (forse sostituibili con altri di importazione) e sul compenso di colf e badanti. Sarebbe anche un trasferimento di risorse da nord a sud, visto che la maggior parte dei salari bassi sono nel Mezzogiorno.

L’impatto finale, assicura l’Inps, sarebbe comunque quello di una riduzione della disuguaglianza (l’indice di Gini, che vale 100 in condizioni di massima disuguaglianza e zero quando l’uguaglianza dei redditi è totale, scenderebbe da 33,8 a 33,6).

I timori a sinistra

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A sinistra i problemi cominciano quando si va a discutere dei dettagli: i 9 euro all’ora includono o escludono la tredicesima mensilità? E come si contano i tanti benefit – per esempio le ore di formazione, o garanzie su orari e turni - che non hanno un valore monetario ma che vengono richiesti dai lavoratori proprio perché preferibili al loro equivalente in euro? Non tutti i lavoratori sono uguali, alcuni (per esempio le donne) hanno bisogno di più tutele, non solo di più soldi.

Proprio per dirimere queste complessità in Italia si è affermato un sistema di contratti collettivi nazionali di categoria che per anni ha garantito trattamenti omogenei a persone in condizioni simili, risparmiando i costi e le incertezze del negoziato individuale (e mettendo al centro i sindacati e le associazioni datoriali). Ma il mondo si è complicato, così come il reticolo dei contratti collettivi, oltre 900, in parte firmati da sindacati che rappresentano pochi lavoratori ma riescono a incidere su molti altri. Mentre le nuove forme di lavoro, a chiamata, a partita Iva, regolate da una app e senza un orario di servizio, finiscono per rimanere del tutto senza tutele.

Lo schema auspicato dall’Inps e da molti nel centro sinistra è quello di introdurre un salario minimo orario assieme a una legge sulla rappresentanza che ridefinisca il ruolo del sindacato e il suo potere di firmare accordi di categoria vincolanti.

Il rischio paventato dai sindacati, che spiega il loro storico scetticismo sul salario minimo, è che senza una riforma congiunta si affermi un doppio binario: quando le imprese lo trovano conveniente, sfuggono ai contratti nazionali e pagano soltanto il salario minimo, i sindacati perdono di ruolo e i lavoratori alla fine non ci guadagnano.

Il salario minimo potrebbe però diventare anche la pre-condizione per la riforma della rappresentanza: soltanto se i lavoratori hanno un paracadute minimo, si può rimettere in discussione l’attuale sistema di tutele e negoziato con le imprese.

L’importante è non ripetere la confusione fatta sul reddito di cittadinanza: per decidere se una riforma è auspicabile o meno, il primo passo è stabilire quale obiettivo raggiungere e quali sono le priorità. Se si vuole aumentare reddito e tutele per la parte più fragile del mercato del lavoro, si tiene quel punto fermo e si adatta tutto il resto, sia dal lato delle imprese (costi più alti), che dei sindacati (meno potere) che dei consumatori (prezzi in crescita).

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