Mentre scrivo, Salman Rushdie lotta tra la vita e la morte dopo essere stato ripetutamente pugnalato da un fanatico. La condanna dello scrittore era stata firmata nel 1989 dall’ayatollah Khomeini; il suo crimine, la presunta blasfemia del romanzo I versi satanici.

Sembrava storia antica, conclusa, e invece lo snodo più drammatico è arrivato quando nessuno lo aspettava più.

In questi trentatré anni l’opinione pubblica occidentale ha fatto in tempo a mobilitarsi e demobilitarsi più volte sulla questione dell’islam radicale, passando dall’ossessione all’indifferenza all’ossessione all’indifferenza, dalla certezza di un inevitabile “scontro di civiltà” all’illusione di essersi lasciata il problema alle spalle, frattanto che altre priorità – economiche, geopolitiche, sanitarie… – conquistavano la sua attenzione, seguendo il ritmo isterico delle stagioni mediatiche.

Il tempo che non passa

È lontanissimo per noi il 1989, storicizzato nel ricordo della caduta del muro di Berlino, musealizzato nel revival dei Guns N’ Roses. Mentre invece di tutta evidenza l’anno della fatwa restava attualissimo per l’attentatore ventiquattrenne di Rushdie, nato nel New Jersey da genitori libanesi. Come se il tempo per lui non fosse passato.

Tre decenni costituiscono per noi un lunghissimo tempo, in cui la società si trasforma radicalmente, le ideologie politiche si riconfigurano, amici e nemici si ridefiniscono. Tanta è l’acqua che scorre sotto i ponti che alle vecchie minacce ci si abitua e si finisce per abbassare la guardia.

Ma come ha scritto Cinzia Sciuto su MicroMega, i terroristi sono in grado di attendere pazientemente.

Questo accomuna l’aggressione di Rushdie all’attentato del 2015 alla redazione di Charlie Hebdo, dove furono uccise 12 persone, oltre ovviamente alla comune matrice jihadista: un rapporto particolare con la temporalità, diverso dal nostro.

Quando i terroristi penetrarono nella sede del settimanale satirico parigino per vendicare il Profeta, erano passati ormai nove anni dalla pubblicazione delle vignette blasfeme che avevano infiammato il mondo islamico.

L’attenzione mediatica era scesa da diversi anni e come spesso accade – vale anche per le guerre e i virus – quando scende l’attenzione mediatica ci si illude che ne sia scomparsa anche la causa. Di tutta evidenza non lo era.

Quell’anno 2015, che si concluderà con i morti del Bataclan, ricordò alla Francia l’esistenza di un mostro addormentato nel profondo delle sue viscere. Anche nel caso del club parigino, la scelta del bersaglio esprimeva la memoria di ferro dei terroristi. Il Bataclan era stato oggetto nel 2008 di ripetute minacce per avere ospitato, nel decennio precedente, il gala annuale per il finanziamento della polizia di frontiera israeliana. Ma le minacce si sarebbero concretizzate solo sette anni dopo.

Al tempo accelerato dei moderni si oppone il tempo lentissimo dei fanatici. Le loro condanne a morte attraversano le epoche, rifuggono le mode, hanno come unità di misura la storia e l’escatologia. Assomigliano al vecchio Cthulhu, che nella sua dimora attende sognando.

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