Martedì 24 maggio Salvador si è svegliato come ogni mattina nella sua camera da letto al primo piano di una casa nella periferia di Uvalde, una cittadina di poco più di 16.000 abitanti, nel Texas. Un piccolo centro dove è normale conoscersi tutti. Salvador ha guardato le notifiche sul cellulare, si è alzato, si è lavato, si è vestito di nero come al solito, e ha indossato i suoi anfibi. Ha scambiato qualche messaggio di sfottò sulla scuola su Instagram con Santos, l’amico di infanzia, e poi è sceso al piano di sotto. Qualche ora dopo giacerà per terra, colpito a morte dalla polizia locale, dopo aver ferito gravemente la nonna ed aver ucciso 19 bambini e due insegnanti alla Robb Elementary School di Uvalde.

Ora, io faccio lo psicoterapeuta e non sta certo a me trattare il problema della lobby dei produttori di armi o della cosiddetta gun culture che trova sempre più seguaci nelle nuove generazioni americane. Dopo i riti collettivi di indignazione e condanna della stampa, delle dichiarazioni del politico, e del discorso di quel mito assoluto del basket americano che è Steve Kerr, rischiamo di restare passivi in attesa della prossima strage.

Il movente

È quindi mio dovere clinico ed etico dare voce al movente di questa tragedia, che non è riconducibile al folle odio razziale di un suprematista bianco, ma al dolore inascoltato di un ragazzo vittima di bullismo che per anni si è sentito dire “fai schifo” e che si è trasformato in una tragica vendetta. Perché Salvador Rolando Ramos potrebbe essere uno dei nostri figli, sia che abitino nel centro o nella periferia di una grande città, piuttosto che nella provincia italiana. Perché la storia di Salvador potrebbe essere quella di tanti ragazzi che accedono ai nostri servizi di supporto psicologico o, peggio ancora, quella di tanti ragazzi che a questi servizi non vi accedono per paura o pregiudizio proprio o dei loro genitori.

La stortura non è solo quella di un sistema di controllo che ha permesso ad un ragazzo di acquistare due fucili, ma Salvador la stortura l’ha conosciuta ad 11 anni, da quando ha iniziato ad essere preso di mira per avere un difetto di pronuncia e per una situazione familiare complessa. Si è poi tragicamente vendicato prendendo la mira e facendo fuoco su degli innocenti.

Bullizzato per anni sui social, in strada, nei corridoi, per come parlava, per come si vestiva, per il suo corpo, che ha incominciato ad odiare e schifare come i suoi coetanei, arrivando a ferirlo infliggendosi dei tagli sul volto e a nasconderlo, facendosi crescere i capelli e in vestiti neri oversize.

Il megafono del corpo

Per tutti noi, ma soprattutto per un adolescente o un giovane adulto, il corpo è il primo megafono attraverso cui i nostri figli urlano qualcosa che non trova sfogo ed espressione nella parola. Soprattutto nella generazione attuale in cui l’emozione predominante non è più il senso di colpa, ma la vergogna, il corpo rischia di essere maltrattato e ferito, proprio perché imperfetto e portavoce di una inadeguatezza non solo fisica, ma della propria identità, della persona.

E alla vergogna dell’imperfezione tipica della nostra attuale società si può reagire in due modi. Si può punire la propria inadeguatezza con gesti autolesivi che purtroppo vengono spesso banalizzati da parte degli adulti: graffiarsi con le unghie e tagliarsi con la punta di un compasso non è la stessa cosa, ci dicono di una profondità diversa di dolore ed emozioni, e non si possono superficialmente etichettare a “gesti per mettersi al centro dell’attenzione”.

Oppure, alla vergogna si può reagire ribellandosi e vendicandosi sugli altri con varie modalità aggressive e di squalifica. Capite perché quello che è successo in Texas ci riguarda da vicino? La lettura delle nuove fragilità e delle nuove patologie dell’età dello sviluppo passano attraverso la difficoltosa relazione con la vergogna e con il complesso riconoscimento della propria identità nelle sue risorse, ma anche nei suoi limiti e vulnerabilità.

Nell’ultimo anno, girando per lavoro diverse scuole, ho incontrato tanti docenti che forse non finiranno il programma scolastico, perché hanno “dato più spazio e ascolto” ai ragazzi per condividere e riflettere sui temi che stavano a loro più a cuore. Credo che siano già degli interventi psico-educativi straordinariamente efficaci, in cui i ragazzi sentono di potersi identificare in relazioni significative con degli adulti, oltre che con il gruppo di pari.

«Questa giostra vuole il sangue per girare. Fare schifo è quasi un dovere morale», canta Willie Peyote in Fare schifo. Prendiamo per mano i nostri ragazzi e facciamoli scendere dalla ruota della perfezione instagrammabile in ogni momento e della felicità da ostentare ad ogni costo.

Prendiamoli per mano ed accompagniamoli con lentezza nella consapevole accettazione di sé, e facciamoli innamorare della bellezza dei propri umani limiti.

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