Le motivazioni che hanno portato Salvini e Berlusconi a concepire l’ipotesi della federazione del centrodestra sono state oggetto di varie congetture. Quella a prima vista più convincente è che si tratti di uno scambio nel quale il primo ottiene l’opportunità di ereditare il patrimonio residuo del secondo. Quest’ultimo, a sua volta, intravede la possibilità che il suo nome entri nel novero dei papabili per il Quirinale.

Lo status di entrambi si avvantaggerebbe di un piccolo upgrading. Da leader in declino di un partito anemico, Berlusconi diventa Presidente del principale soggetto politico del centrodestra e assume comunque la parvenza di padre nobile. Salvini, in quanto capo effettivo della federazione, riguadagna la distanza che aveva già quasi tutta consumata da Giorgia Meloni allontanando di nuovo il momento di una sfida effettiva per la leadership dell’intera area.

C’è un aspetto sottostante a questi giochi di palazzo che non mi pare sia stato sottolineato a sufficienza. Forse perché è sotto gli occhi di tutti e viene dato per scontato. Si sa che l’elettorato italiano negli ultimi trent’anni si è dimostrato estremamente fluido.

Si sa anche che, alla fine, nonostante il terremoto prodotto dall’entrata in scena dei Cinque Stelle e al netto della breve fase in cui i Cinque Stelle sono riusciti a presentarsi come un movimento fuori dal sistema, rimangono fratture sufficientemente profonde che dividono l’opinione pubblica italiana in due aree di dimensioni quasi equivalenti. Con una differenza non da poco. Che l’elettorato di centrodestra ha dimostrato di muoversi con molta duttilità tra i leader e i simboli disponibili e al tempo stesso una certa propensione a sostenere l’uomo o la donna “più forte” del momento nel loro campo.

Tutto al contrario dall’altro lato, dove ancora continuano a pesare riflessi condizionati da appartenenze politiche della prima repubblica, dove è rimasto stabilmente presente un segmento di elettorato del 6-7 per cento che preferisce in ogni caso votare per una qualche sigla di “sinistra-sinistra”, a cui si sono aggiunti vari partitini personali, oltre che, ora, i Cinque Stelle a guida Conte.

Insomma, anche se appare frutto di un gioco di palazzo, la federazione non è elettoralmente innaturale. Si rivolge a un elettorato che è passato rapidamente e in massa dal sostenere Silvio Berlusconi, poi Matteo Salvini, poi Giorgia Meloni. Va sottolineato: con movimenti insensibili alla metrica del “più a destra” o “più al centro”, quanto piuttosto guidati dalla propensione a sostenere il/la leader capace di stressare con più veemenza i temi ritenuti di volta in volta prioritari o di adottare la postura più opportuna.

D’altro canto, questi salti sono niente rispetto a quello che portò nel 1994 milioni di elettori ex-democristiani o ex-socialisti verso il Polo della Libertà e il Polo del Buongoverno. Berlusconi, Salvini e Meloni hanno assunto in alcuni momenti toni e posizioni marcatamente diverse su alcuni temi, ed in particolare riguardo ai rapporti con l’UE, ma a ben vedere sono molte di più le somiglianze, soprattutto sui temi fondamentali per l’elettorato di centrodestra (tasse, immigrazione, giustizia).

C’è di più. Secondo una recentissima rilevazione SWG, gli elettori di Fratelli d’Italia sono, come è ovvio, più scettici riguardo alla federazione tra Lega e Forza Italia rispetto agli elettori di queste stesse sigle. Ma si rivelano al tempo stesso, in astratto, i più entusiasti estimatori di un sistema politico come quello americano, con solo due grandi partiti.

Nel tentativo precedente, fatto dal predellino emulando il Pd, quando Berlusconi era ancora sulla cresta dell’onda e si preparava a tornare a Palazzo Chigi, il partito più prossimo a Forza Italia, era Alleanza Nazionale. Con Gianfranco Fini già allora riluttante e quasi costretto ad accettare l’abbraccio insidioso del Cavaliere, spinto anche da una classe dirigente di Alleanza Nazionale che cominciava a diffidare di lui ed era invece attratta dalle sirene berlusconiane. Si sa come andò a finire. Giorgia Meloni fuoriuscì non per seguire Fini, ma perché le fu impedito di candidarsi a primarie per la leadership.

La recente puntata della saga viene generalmente raccontata come una replica deprimente di quel primo tentativo, a rapporti di forza invertiti, con uno dei protagonisti logorato dal tempo e l’altro intimorito dalla Meloni che avanza. C’è ovviamente anche questo. Ma pure il countdown verso l’elezione del presidente della Repubblica e il rinnovo delle Camere. Due momenti in cui la capacità di presentarsi uniti vale più della somma delle singole forze, tanto più a fronte di un centrosinistra così diviso.

L’accordo appena trovato sui candidati comuni per Roma e Torino, la promessa di chiudere a breve sulle altre città e la Calabria, dimostrano che i protagonisti hanno ben chiaro l’obiettivo. Al punto che prima o poi potrebbero considerare un approdo ancora più ambizioso, oggi apparentemente lontano ma del tutto plausibile: una federazione più larga se non quel partito unico del centrodestra che di fatto tra gli elettori già esiste.

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