L’attività di un ambasciatore si giudica da quanto riesce a ottenere dal paese dove svolge il suo mandato. Fino a questo momento, in tutta sincerità, Dror Eydar, ambasciatore di Israele che lascerà il nostro paese il 4 settembre, non è che avesse raccolto granché dal suo arrivo nel 2019.

Ha avuto, però, almeno due attenuanti. La prima è che ha dovuto svolgere il suo mandato nei terribili anni del Covid, in cui, va riconosciuto, è stato in Italia lontano dalla sua famiglia in Israele, a coordinare i rapporti fra le comunità ebraiche locali e lo stato ebraico in quei drammatici momenti. Un lavoro solo apparentemente minore perché molte famiglie ebraiche italiane hanno figli e parenti in Israele e l’ambasciatore di turno diventa il punto di riferimento a cui affidarsi.

La seconda attenuante, possiamo dircelo, è che l’Italia, se si parla di geopolitica, è la periferia dell’impero e i suoi margini di manovra sono scarsissimi. Proprio al momento del congedo, però, il coup de théâtre: Matteo Salvini ha dichiarato al quotidiano free press israeliano Israel HaYom, dove Eydar è stato editorialista nella sua precedente vita, che una volta al governo sposterà l’ambasciata italiana a Gerusalemme sulla scia di quanto fatto da Donald Trump.

La dichiarazione va a ulteriore merito di chi ha rappresentato Israele in Italia in questi anni perché è la degna conclusione di un rapporto che Eydar ha coltivato, scegliendo, fedele al verbo di Benjamin Netanyahu che lo ha nominato, nettamente la parte destra del nostro quadro politico. Non infrequenti i post sui suoi canali social di ringraziamento commosso alla Lega, così come gli eventi organizzati alla presenza di Salvini. Non ultimo una presentazione del libro con cui Eydar chiude la sua parentesi diplomatica italiana.

La virata leghista

Sarebbe da chiedersi a che titolo Salvini si arroghi il potere di spostare l’ambasciata italiana a Gerusalemme, in quanto non risulta essere né il primo ministro in pectore né il ministro degli Esteri.

Ci si dovrebbe, poi, interrogare su quanto questo favorisca un ormai estinto processo di pace, anche alla luce del rinnovato afflato ecumenico del leader della Lega, che abbiamo scoperto essere un pacifista convinto.

Ma qui vogliamo più che altro riflettere sul motivo che ha portato la Lega salviniana vicina allo stato ebraico, sul modello di quanto avvenuto nelle destre identitarie europee in questi ultimi anni. A maggior ragione perché la Lega di Umberto Bossi si distingueva per una spiccata simpatia nei confronti della causa palestinese.

Non ci vuole un genio per capire che la virata ha coinciso con la montante islamofobia del dopo 11 settembre, accompagnata da una svolta identitaria nel nuovo quadro ideologico segnato dallo «scontro di civiltà». Svolta che la Lega non ha mancato di cavalcare fiutando il cambio d’aria, fino alla ridefinizione salviniana del partito in chiave nazionalista.

Le incoerenze

Insomma, nessuna elaborazione ideologica a giustificare un passaggio così clamoroso, puro calcolo elettorale. A testimoniare l’incoerenza, nello stesso periodo e per le stesse ragioni, la nuova Lega non mancava di organizzare manifestazioni con i fascisti del nuovo millennio di CasaPound, oppure eventi con Lealtà e azione; di infarcire le proprie liste elettorali di fascistoidi e antisemiti di ogni ordine e grado. Famosa la polemica durante la campagna elettorale di Stefano Parisi a sindaco di Milano.

Così, l’ho scritto recentemente ma voglio ribadirlo, come non sono mancate le vergognose campagne anti rom e sinti, con richieste di schedatura che evocano i peggiori fantasmi alla memoria ebraica. Ancor più se si pensa che si tratta dell’unico popolo con cui gli ebrei condividevano il marchio infame di «nomadismo» nella classificazione razziale nazista. Una razza una faccia, si dovrebbe dire.

Questo avvicinamento già da me definito peloso, arriva, tra l’altro, fuori tempo massimo: il caso polacco, con il richiamo dell’ambasciatore per la legge che vieta ogni accostamento fra Polonia e campi nazisti, già mostrò il fallimento della strategia Netanyahu.

Troppe le contraddizioni e le palesi strumentalizzazioni perché i nodi non vengano al pettine. Allora, prima ripulire le liste. Prima chiedere mille volte scusa per le campagne contro rom e sinti, poi, forse, spostare l’ambasciata a Gerusalemme. Che tanto, diciamocelo, non serve a niente, se non ad appuntare una stelletta al petto di qualcuno che deve tornare in patria dimostrando di aver prodotto qualcosa.

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