In Veneto la coalizione di centrodestra ha un vantaggio netto nei sondaggi, ma al suo interno ha luogo una contesa che può risultare molto rilevante per gli equilibri della politica italiana. Il profilo “sovranista” assunto dalla Lega di Matteo Salvini, risulta ben diverso dall’offerta politica di Luca Zaia, legata ad un tema tradizionalmente cruciale nell’Italia nordorientale, quale l’autonomismo. L’origine di queste due diverse linee politiche risale a differenti periodi critici della storia politica italiana e chiama in causa prospettive territoriali differenti.

Nel Nordest, già negli anni Ottanta sono emersi i primi segnali della crisi della “Repubblica dei partiti”, con l’erosione del consenso alla Democrazia Cristiana e l’affermazione della Liga Veneta prima e della Lega Nord poi che del richiamo al territorio hanno fatto esplicitamente il loro vessillo. Tale cambiamento ha contribuito a frantumare i più radicati stereotipi orientati a rappresentare il Veneto quale contesto caratterizzato da devozione e quiete sociale, ma ha causato, talvolta, descrizioni imbevute di stereotipi di segno opposto, che riducevano tutto ciò che accadeva in questa porzione di mondo, dalle proteste anti-fisco degli imprenditori alle richieste di autonomia degli enti locali, a manifestazioni di egoismo sociale.

I due conflitti

Per comprendere le trasformazioni del Nordest è necessario guardare a come si adatta la sua cultura politica diffusa alle sfide che la società locale deve affrontare.  La cultura politica tipica dell’Italia nordorientale in generale, e del Veneto in particolare, è frutto della sovrapposizione di due linee di conflitto tipiche della storia italiana sin dal Risorgimento: quella che divide il “centro” dalla “periferia” e quella che contrappone lo “Stato” alla “Chiesa”. Il “localismo”, inteso quale forte senso di appartenenza alla comunità locale e ai suoi leader, non è caratteristico solo del Nordest, essendo presente in moltissime zone d’Italia, in virtù della linea di frattura “centro-periferia” che ha spesso contrapposto le élite nazionali e quelle locali.

Tuttavia, in Veneto il conflitto centro-periferia si salda con quello “Stato-Chiesa”, a causa di molteplici fattori storici di lungo periodo: la difficoltà dello Stato italiano a integrare gli ex-territori della Serenissima Repubblica di Venezia, gli sconvolgimenti sociali dei primi decenni successivi all’Unità d’Italia che aggravano tale situazione e gli aspri conflitti sia immediatamente precedenti sia successivi all’instaurazione del fascismo. Ossia per il succedersi di reiterati eventi traumatici nei quali la Chiesa si erge spesso quale unico riferimento sicuro per la società locale.

La grande trasformazione

Durante il primo periodo repubblicano (1946 – 1992) l’egemonia della Chiesa nell’Italia nordorientale costituisce la base di consenso più significativa per la Democrazia cristiana. 

Tuttavia, negli ultimi tre decenni del Novecento il Nordest si è caratterizzato per un impetuoso sviluppo economico di piccola e media impresa, il cui impatto ha contribuito a sradicare i riferimenti tradizionali e religiosi, trasformando in profondità la filigrana della società.

Tale “grande trasformazione” si è compiuta soprattutto nelle aree pedemontane a seguito della riduzione delle attività rurali e in virtù dell’affermazione di sistemi produttivi locali, formati da piccole e medie imprese ubicate in aree contigue, i “distretti industriali”. Aree distrettuali quali l’Occhialeria del Bellunese, il Laniero dell’Alto Vicentino o il Distretto del Mobile della Sinistra Piave sono diventate emblematiche di un modello di sviluppo basato sulla flessibilità e l’innovazione, in cui è stato possibile conseguire un elevato livello di competitività mantenendo contenute le dimensioni d’impresa.

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta è qui l’epicentro del cambiamento che vede la Lega fagocitare gran parte dei consensi della Dc, quando da tali contesti emerge fortissima la richiesta di autonomia per poter meglio competere sui mercati globali. Infatti, gli anni che accompagnano l’epopea del Nordest, ben descritta da Giorgio Lago quale direttore del Gazzettino prima ed editorialista di Repubblica poi, sono caratterizzati dal dispiegarsi della globalizzazione e da interpretazioni che considerano il suo incedere inarrestabile e benefico.

Nello scorcio iniziale del XXI secolo il punto di vista sulla globalizzazione muta drammaticamente. Le democrazie liberali dell’Occidente si ritrovano esposte ad aggressioni terroristiche e, dal 2008, debbono fronteggiare una crisi economica prolungata. Le crisi aprono “finestre di opportunità” politiche. In tale contesto, emergono in tutto l’Occidente di leader e partiti “anti-establishment” o “neopopulisti”. Una versione molto competitiva di questa nuova offerta politica è costituita da una destra radicale e nazionalista (ribattezzata “sovranista”) che conosce in Italia una fortuna peculiare.

A seguito della crisi che travolge la classe dirigente leghista cresciuta attorno ad Umberto Bossi, Matteo Salvini diviene segretario della Lega Nord nel dicembre 2013 e subito radica il suo partito sulla nuova linea di frattura antiglobalista e antieuropeista intersecata con una posizione fortemente antimmigrazione.

Rispetto alla leadership di Bossi, Salvini considera secondaria la linea di frattura centro-periferia e questo trasforma l’offerta politica leghista: da formazione locale, legata agli interessi dei territori del Nord, a partito nazionale. Si tratta di un cambiamento necessario alla sua espansione elettorale nell’Italia centrale e meridionale: sono frutto di questa scelta i notevoli risultati della Lega alle elezioni politiche del 2018 (17,35 per cento) e, soprattutto, alle europee del 2019 (34,26 per cento).

Una questione nazionale

La trasformazione imposta da Salvini alla Lega lascia aperta la questione di chi possa interpretare la linea di frattura centro-periferia e intercettare il localismo antistatalista, che è caratteristica di lungo periodo della cultura politica dell’Italia nordorientale. In tale contesto si colloca appieno il ruolo del Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, risultato finora un interprete credibile del conflitto centro-periferia, tanto da affermarsi nettamente sia alle elezioni regionali del 2010, in cui è risultato vincitore con il 60,16 per cento, sia alla tornata successiva del 2015, nella quale, nonostante la concorrenza dell’ex leghista Flavi Tosi (11,87 per cento) e la crescita del Movimento Cinque Stelle (il cui candidato, Jacopo Berti, raggiunge l’11,88 per cento) ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti (50,09 per cento).

In quest’ultimo appuntamento elettorale la sua lista personale è risultata la lista più votata in Veneto. Infatti, mentre la Lega Nord si è attestata al 17,83 per cento la Lista Zaia ha ottenuto il 23,09 per cento. Se nelle imminenti elezioni regionali il divario fra la Lista Zaia e la Lega per Salvini premier dovesse aumentare la leadership di Zaia risulterebbe corroborata, assieme alla sua linea politica.

L’Italia non è il Nordest, ma il Nordest non può essere facilmente “normalizzato”, come hanno mostrato le vicende degli ultimi decenni, e con uno Zaia ulteriormente rafforzato la questione territoriale potrebbe ritornare al centro dell’agenda politica.

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