Che i rapporti di Matteo Salvini con la strategia siano alquanto problematici è noto, soprattutto dopo l’affondamento dell’alleanza gialloverde, che lo ha precipitato dall’ambizioso traguardo dei pieni poteri governativi alla ben più modesta prospettiva di conservare la guida dell’opposizione parlamentare.

Da tempo è evidente che il segretario della Lega non è uomo da riflessioni di lungo periodo, accomodamenti diplomatici, temporeggiamenti opportunistici e mosse studiate a tavolino da attuare con pazienza e sangue freddo.

Il temperamento lo spinge in un’opposta direzione, in cui contano  l’effetto immediato delle repentine prese di posizione, la carica emotiva delle dichiarazioni roboanti, l’impressione di genuinità che scaturisce dall’affidarsi all’istinto.

 Ingredienti che vanno per la maggiore sui social media, dove a pesare è la velocità del messaggio, la capacità di replica agli attacchi in tempo reale, la possibilità dell’utente di raccogliere quello che gli interessa nel giro di poche manciate di secondi.

Non è un caso che proprio alla potenza di fuoco del suo apparato comunicativo via web Salvini debba gran parte dei successi fin qui ottenuti.

La politica non è però fatta solo di contatto immediato con il grande pubblico, in cui l’affidarsi al solo registro della tattica può bastare a creare correnti di attenzione e simpatia e la produzione estemporanea di battute e provocazioni è in grado di provocare esplosioni di like e ritweet.

Esige anche momenti di confronto (e scontro) con alleati, concorrenti e soggetti istituzionali: un terreno di gioco insidioso, in cui le improvvisazioni quotidiane servono a poco e la mancanza di visioni di ampio respiro può risultare letale.

Il tribuno milanese avrebbe dovuto impararlo già nell’estate del 2019, quando invece della riapertura delle urne da cui sperava di veder uscire un plebiscito a suo favore si trovò di fronte il voltafaccia di Beppe Grillo e Renzi, il niet del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la disponibilità del Pd a stringere un patto con il detestato Movimento Cinque stelle; ma i suoi comportamenti più recenti inducono a credere che quella lezione non l’abbia tuttora digerita, e forse neppure ascoltata.

Quel 34,3 per cento alle elezioni europee di tre mesi prima e l’ulteriore crescita nei sondaggi del periodo successivo, che l’avevano indotto al proclama del Papeete, Salvini lo aveva raggiunto con una politica di spregiudicata trasversalità tipicamente populista.

Accettare la sfida dell’accordo con i Cinque stelle, prendere le distanze dal resto del centrodestra e accaparrarsi una poltrona ministeriale di prima fila pur continuando a prendere a cannonate verbali l’establishment e i maggiorenti di Bruxelles, la globalizzazione e l’immigrazione era una scelta che era piaciuta a quasi tutto il suo elettorato potenziale. E che aveva ridimensionato Meloni e ancor più Berlusconi, regalandogli un’insperata libertà di movimento.

La rottura dell’alleanza aveva mandato in frantumi quello scenario, determinando il rientro nei ranghi del fronte conservatore, un travaso di consensi dalla Lega ai Fratelli d’Italia, il riconfinamento in un’immagine estremista che l’insuccesso dell’aggressiva campagna elettorale in Emilia-Romagna non aveva fatto altro che consolidare.

Da quel frangente in poi, il tatticismo salviniano ha mostrato tutti i suoi limiti, facendo capire ad alleati-concorrenti ed avversari che “il Capitano” non aveva carte di ricambio da giocare e non credeva più alla possibilità di vincere con quelle che aveva in mano.

L’improvvisazione moderata

Lo scoppio della pandemia ha fatto piovere sul bagnato, rivelando atteggiamenti oscillanti e contraddittori ispirati dagli umori del momento e dalla difficoltà di raccordarsi con le scelte, non convergenti, dei presidenti leghisti delle regioni più colpite dal Covid-19, le cui obbligate prudenze impedivano di imboccare fino in fondo la via delle proteste contro le chiusure delle attività produttive, senza peraltro aprire alla collaborazione con un governo detestato ed attaccato di continuo.

Lo zigzag fra ammiccamenti alle denunce della “dittatura sanitaria” ed elogi alla linea dura del presidente del Veneto Luca Zaia non ha giovato ad una leadership che le indagini demoscopiche hanno mostrato in costante calo.

I guai maggiori sono tuttavia venuti dopo e si stanno manifestando in questi ultimi giorni, con una riconversione moderata che mostra i sintomi dell’improvvisazione. Scavalcato dalle esternazioni del vicesegretario Giancarlo Giorgetti, che non ha mai fatto mistero del desiderio di abbandonare la linea populista a favore di un posizionamento centrista che non è mai stato nel Dna della Lega, Salvini si è spinto al punto di dichiararsi disponibile a collaborare “per il bene del paese” con l’attuale esecutivo e poi ad evocare un governo d’emergenza guidato dal centrodestra con il sostegno parlamentare di volenterosi transfughi di vario colore, dando l’impressione di essersi allineato a quella prassi politicante che era da sempre il suo bersaglio polemico preferito.

Si è esposto così ai piccati distinguo di Giorgia Meloni, che lo ha immediatamente sostituito nel ruolo, e ha ridato fiato all’ansimante Forza Italia, che si è ovviamente presentata come la candidata naturale a guidare il timone della coalizione in questa inversione di rotta.

Svestendo gli abiti populisti, insomma, il segretario leghista si è privato del suo naturale serbatoio di consensi, imbarcandosi in un progetto che, oltre a non garantirgli il successo, rischia di costargli anche il primato in casa propria: nella Lega, dove i “governisti” sono in agguato, e nella coalizione. C’è da chiedersi se se ne sia accorto.

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