Delegittimare l’avversario, per limitarne la capacità di attirare consensi o ostacolarne l’azione di governo, non è certo una novità in politica. Ancora una volta, si potrebbe risalire a Machiavelli per rintracciare una teorizzazione di questo modo di agire, ma il segretario fiorentino non scopriva niente; si limitava a trarre insegnamenti da una storia plurimillenaria che rigurgitava di denunce, scandali, illazioni, calunnie e smascheramenti connessi alle lotte per il potere, di cui i cronisti delle epoche precedenti avevano fornito ampie testimonianze. E le cose hanno continuato ad andare così da allora ad oggi, in una scia ininterrotta che richiama alla mente Banca Romana, affaire Panama, Watergate e un’infinità di altre vicende.

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Per rimanere al panorama italiano di tempi non lontani, si può ricordare il vaso di Pandora di accuse e rivelazioni spalancato da Tangentopoli, o richiamare alla mente l’uso incrociato delle invettive anticomuniste e antifasciste, con le connesse insinuazioni sulla reciproca doppiezza, tra Silvio Berlusconi e lo schieramento progressista prima, durante e dopo le elezioni del 1994.

O ancora la diatriba politico-giudiziaria sorta attorno alla saga boccaccesca del fondatore di Forza Italia, da Noemi Letizia alle olgettine, passando per le “cene eleganti” di Arcore e la presunta nipote di Mubarak.

Duelli che hanno lasciato consistenti scorie sottotraccia nel dibattito pubblico, che ogni tanto riaffiorano in superficie sotto nuove spoglie, come è accaduto nell’ultima settimana con le vicende che hanno coinvolto lo stratega salviniano dei social media Luca Morisi e il parlamentare europeo di Fratelli d’Italia Carlo Fidanza. Che siano state le due formazioni politiche più consistenti – e più radicali nei programmi e nello stile comunicativo – della coalizioni di centrodestra non ha di che sorprendere.

L’identità illegittima

Per il peso delle accuse di complicità e/o condiscendenza con l’avvento e il consolidamento del fascismo, la destra in Italia ha sempre dovuto subire gli effetti di quello che lo storico Roberto Chiarini definì, in un illuminante saggio del 1991, «il paradosso di un’identità illegittima», che non le impediva di partecipare alla vita istituzionale del Paese ma la rendeva inaccettabile come forza di governo, facendola oggetto di una conventio ad excludendum più rigida di quella riservata al Pci, in forza di normative come la legge Scelba o di accordi strategici come quella dell’«arco costituzionale».

Il terremoto del sistema partitico avviato dall’inchiesta Mani Pulite è parso per un breve periodo fare piazza pulita di quei meccanismi di contenimento, che sono però in parte risorti sotto altre vesti. E le cose non sono cambiate quando ad esercitare una funzione delegittimante verso chi ne era il bersaglio non è stato più solo l’epiteto «fascista», ma anche le etichette «populista» e «sovranista», spesso utilizzate per addebitare a chi viene così definito un mix di demagogia, irresponsabilità, sguaiataggine, aggressività, chiusura mentale, incultura, rozzezza, xenofobia e malcelate intenzioni autoritarie. Un concentrato di caratteristiche che renderebbe queste formazioni e i loro esponenti impresentabili e infrequentabili.

Destra contro destra

(Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse)

Ad un trattamento di questo genere, Meloni, Salvini e i loro sodali si sono abituati, e non si sono trattenuti dal restituire i colpi al mittente con affondi polemici e contrattacchi di tale pesantezza da suscitare l’accusa – soprattutto nel caso della “Bestia” guidata da Morisi – di aver messo in funzione una «macchina del fango» per gettare nel discredito a suon di fake news i soggetti presi di mira.

Quello che invece non sembra avessero messo in conto è che la delegittimazione nei loro confronti potesse provenire dallo stesso campo al quale appartengono.

Le battute di Berlusconi – rilasciate, per sovrappiù, a un giornale tradizionalmente nemico – per liquidare con un «ma non scherziamo» le ambizioni di premiership dei due alleati, l’apertura di credito di Giancarlo Giorgetti a Carlo Calenda alla vigilia delle elezioni romane e alcuni altri episodi di analogo segno, come i commenti ben poco amichevoli di presidenti di regione leghisti di fronte alle intemperanze del segretario del Carroccio, li hanno posti di fronte ad un serio pericolo di “fuoco amico”. Che pare puntare ad estrometterli dal gioco delle posizioni apicali di potere e a farne una sorta di leaders di serie B, buoni per scaldare il pubblico con le loro esibizioni ma destinati a scendere dal palco quando in scena devono entrare i protagonisti del concerto.

Il gap di legittimità

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Di fronte a un dato così inedito, la denuncia dell’ostilità preconcetta dei media, o dell’esistenza di un piano ostile escogitato a tavolino (la «polpetta avvelenata»), anche a prescindere dalla sua fondatezza, rischia di rivelarsi insufficiente.

Perché, al di là dell’accanimento diffamatorio di cui da anni populisti e sovranisti dichiarano di essere vittime, denunciando la censura praticata da organi di stampa, mezzi audiovisivi e centri di potere culturale per censurare le opinioni politicamente scorrette, ad emergere da queste pugnalate alle spalle è l’estensione crescente dell’alone di diffidenza che circonda la loro credibilità.

Cioè, per ricollegarci al tema da cui siamo partiti, la crescita del gap di legittimità che li separa dagli altri attori politici e li fa apparire, anche agli occhi di un certo numero di elettori potenziali, inadatti a svolgere ruoli diretti di governo e bisognosi di quelle garanzie che solo un tutore moderato può fornire. Offrendo agli alleati-concorrenti centristi non solo un’arma efficace per costringerli ad accettare compromessi e mutamenti di linea – come è accaduto alla Lega da quando ha deciso di far parte del governo Draghi – ma anche un pretesto per eventuali sganciamenti futuri, qualora le circostanze suggerissero la creazione di esecutivi di “unità nazionale” con un baricentro diverso da quello attuale.

Di questa situazione svantaggiosa sul piano dell’immagine, che li penalizza nel rapporto con gli ambienti socioeconomici di maggiore peso e nel reclutamento di una classe dirigente all’altezza dei compiti che attendono i partiti di governo, populisti e sovranisti considerano unica responsabile l’egemonia della sinistra e il suo potere di interdizione in molti degli ambienti “che contano”, e sarebbe stolto negare che in questa narrazione c’è un fondo di verità, che si mescola però con un forte tasso di miopia e una sostanziale incapacità di autocritica.

L’effetto del successo

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Per capire come si sia venuto configurando questo loro handicap, Meloni e Salvini dovrebbero riflettere sul processo che li ha portati sulla cresta dell’onda.

Sin da quando il vento delle crisi aperte dagli effetti collaterali del processo di globalizzazione ha iniziato a far lievitare i loro consensi elettorali, in Italia come in molti altri paesi d’Europa i partiti populisti hanno infatti puntato le loro carte sui sentimenti di disagio che cavalcavano società scosse da delocalizzazioni, espulsioni dal circuito produttivo, flussi migratori di massa, precarizzazione del lavoro, timore del futuro.

Hanno fatto da megafoni dell’indignazione per la corruzione della classe politica e per il crescere dell’insicurezza.

Hanno scommesso, con buoni risultati, sull’incapacità dell’establishment di rispondere alle domande dei tanti insoddisfatti. Ma non hanno mai fatto un passo oltre. Si sono limitati a giocare di rimessa.

Non hanno accompagnato la protesta con la proposta di una visione alternativa dello scenario contro cui si scagliavano. Non hanno dato contorni chiari e positivi ai concetti a cui si richiamavano – identità, comunità, sovranità nazionale – né offerto una risposta coerente e articolata a chi, sul fronte avverso, li incalzava agitando le bandiere dei diritti umani, dell’abolizione delle frontiere, del cosmopolitismo, della teoria del genere, del divieto di imporre limiti ai diritti individuali.

Hanno disertato il terreno del confronto culturale, reputandolo – a torto – secondario e ininfluente ai loro scopi, dando l’impressione di non essere preparati ad affrontare le sfide di portata globale che minacciano il futuro delle attuali società. È questa la causa prima delle difficoltà in cui oggi si trovano.

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