Le differenze fra Cecilia Marogna e una santa si vedono a occhio nudo. Mentre qualche santa ha dovuto penare per liberarsi dalla diffidenza ecclesiastica, lei ha saputo accreditarsi con la disinvoltura di un Tarantino («my name is Mr. Wolf, and I solve problems») presso un uomo di potere come il cardinale Angelo Becciu: e ha saputo farsi dare dal Sostituto somme che o non sono servite a niente o sono servite a tenerla distante da tavoli delicati come quelli sui quali si negozia la vita di ostaggi. Niente di nuovo.

Il cardinale Silvestrini metteva in guardia i preti dal gestire il denaro, perché, diceva, «i preti buoni si fidano dei delinquenti perché sono dei buoni; e quelli delinquenti si fidano dei delinquenti perché sono come loro».

E tutto l’affaire Becciu si regge sull’ipotesi che l’uomo vissuto a una spanna dal papa per sei anni fosse del secondo tipo. La sua – dicono gli accusatori e l’insieme di prove e teoremi passati alla stampa – non era dunque la figura più cinica della politica ecclesiastica e nazionale: ma quella di un diplomatico di seconda fila, messosi in concorrenza con un fuoriclasse come il cardinale Parolin e invece travolto dal rapporto con collaboratori disonesti e mercanti opachi, colpevole di munificenze peraltro non inedite fra i prelati.

E a fortiori colpevole anche di aver trafficato con questa consulente dandole denaro che, secondo lei, era la paga dei suoi servigi e che invece, per gli inquirenti vaticani, era un deposito affidatole come pubblico ufficiale sul quale ha commesso peculato. Accusa per la quale si è deciso di chiederne l’estradizione in Vaticano.

Arrestata dalla Guardia di finanza e incarcerata a Milano il 13 ottobre, Marogna è stata rilasciata ieri. E la magistratura italiana ha dovuto scarcerarla, ponendo le basi per un rifiuto dell’estradizione che era nelle cose e che Emiliano Fittipaldi aveva previsto su queste pagine, meravigliandosi giustamente di come si fosse potuto immaginare un passo tanto bislacco.

Bastava rileggere attentamente l’articolo 22 del Trattato: «L’Italia provvederà nel suo territorio alla punizione dei delitti che venissero commessi nella Città del Vaticano, salvo quando l’autore del delitto si sia rifugiato nel territorio italiano, nel qual caso si procederà senz’altro contro di lui a norma delle leggi italiane».

È il congegno che avrebbe dovuto portare alla sbarra monsignor Marcinkus, colpevole di aver ordito con la mafia la spoliazione del Banco Ambrosiano da cui discesero la morte di Roberto Calvi e l’uccisione dell’avvocato Ambrosoli, cosa che com’è noto non accadde; e che ha consegnato Ali Agça al sistema giudiziario italiano. Ma non può funzionare al contrario per un motivo ecclesiologico.

Pur garantendosi di poter perseguire il clero condannato anche in Italia, la Santa sede del 1929 si impegnava a consegnare «allo stato italiano le persone, che si fossero rifugiate nella Città del Vaticano, imputate di atti, commessi nel territorio italiano, che siano ritenuti delittuosi dalle leggi di ambedue gli Stati».

Era un atteggiamento che discendeva dalla volontà di Pio XI di non restaurare una temporalità ingestibile. E che per l’Italia fissava un confine ancor più invalicabile perché avrebbe dovuto ammettere che lo stato di diritto può consegnare i propri cittadini alla giustizia di un sistema in cui potere legislativo, esecutivo e giudiziario non hanno contrappesi ed esprimono una volontà che non può che essere assoluta. Così ha ritenuto anche la magistratura milanese. E se questa rimarrà la sua linea i successori di Di Pietro avranno tolto al successore di Pietro un bel problema. Il processo al quale Becciu si è reso disponibile, rinunciando al diritto e alla prerogativa di essere giudicato solo dal papa, può infatti contare sul fatto che – dopo la conferenza stampa insolente e autolesionista convocata all’indomani della sua destituzione da prefetto – l’ex Sostituto ritrovi aplomb e misura di chi ha gestito un ufficio che (sono parole di monsignor Montini a Gilson, non di Becciu) «non deve rendere conto ad alcuno del proprio operato».

Ma è evidente che, come ben più dei membri dell’ufficio di Becciu, una consulente “di mondo” come Marogna avrebbe mille strumenti e talenti per passare da accusata ad accusatrice, con argomenti non necessariamente veri, ma a quel punto tutti ugualmente insidiosi per quello che i medievali chiamavano lo status ecclesiae, lo star-bene della chiesa.

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