La scuola ci accomuna, ma al tempo stesso ci separa. Esiste un’idea di insegnamento che riproduce gli schemi e i pregiudizi del mondo esterno. E una che insegna a scardinarli
Il tempo passato scuola è una esperienza che orma ci lega, anche se in modo diverso, tutti quanti. Adolescenti con adulti, bambini e anziani, chi ha la cittadinanza italiana e chi di un altro paese, persone di generi diversi, chi vive in una villa in un quartiere privilegiato come chi vive in una casa popolare. Studenti che si sono laureati come quelli che hanno abbandonato il prima possibile.
I momenti passati a scuola in qualche modo ci collegano. Nell’odore di polvere e detergente dei corridoi, persi guardando fuori dalla finestra, felici per un bel voto preso o con la sensazione di essere un fallimento, rimangono dentro di noi. Ognuno e ognuna di noi ricorda la sensazione di non avere potere, voce, possibilità di decidere. Il giudizio costante.
Ma anche gli sguardi tra compagni, il momento in cui ti innamori di qualcosa che scorgi tra le parole di una professoressa appassionata o dentro un libro di testo, il costruire narrazioni segrete e proibite nascoste dal controllo degli adulti, la sofferenza ma anche la speranza che qualcosa cambi. Quel professore o professoressa che ci ha visti veramente. È tutto dentro ognuno di noi.
Ma anche se ci siamo passati tutti, se oggi qualcuno ci chiedesse qual è l'obiettivo dell'andare a scuola, otterrebbe risposte diversissime, piene di sfumature o a volte anche inconciliabili: crescere, diventare adulti, imparare un lavoro, obbedire, innamorarsi della libertà, imparare le regole, imparare a trasgredire, stare lontani dalla strada, formarsi un spirito critico, aumentare la propria conoscenza, svilupparsi in modo armonico. Probabilmente perché la scuola ha, che lo voglia o meno, uno spettro ampio di obiettivi, quasi come la vita, direbbe Dewey. O, come ha scritto una volta Giroux, perché nonostante il suo definirsi democratica, "tiene dentro di sé sia l'ideologia dominante che un’ideale di lotta e resistenza."
E incontriamo la prima idea di scuola in tanti modi. Quando si tiene il 70% del tempo di parola per gli adulti lasciandone solo il 30% alla classe, che se lo dividi per ogni studente fa poco più dell'1% a testa. E sappiamo che questo tempo non è mai diviso equamente nemmeno tra gli studenti ma immaginiamo che lo sia: significa meno di un minuto a lezione, sei in una mattinata. Come si cresce allora parlando 6 minuti al giorno nel periodo in cui ti stai formando un'identità? Come si fa a innamorarsi della libertà? Oppure la scuola che fa diplomare il 93,3 per cento dei 20-24enni con cittadinanza italiana ma solo il 55,1 per cento di chi ha una cittadinanza diversa. Quella che seleziona con i voti e l’orientamento, quella che trasforma magicamente il privilegio in merito e talento. Quella che pensa che l’unica storia sia quella conosciuta dall’Occidente.
Allo stesso tempo qualcuno ha avuto anche la fortuna di avere a che fare con una scuola di lotta e resistenza quando ha incontrato dei docenti che provano a decostruire la “fabbrica di voti", come direbbe Christian Corsini; che cerca di non rubare tutto il tempo ai ragazzi e alle ragazze per spiegazioni e verifiche, come ha scritto Raimo in un articolo pochi giorni fa; che parla lingue diverse e di storie diverse; che sa pronunciare i nomi di tutti gli studenti e di tutte le studentesse, anche di quelle che si chiamano Espérance Hakuzwimana. Quella dei collettivi che manifestano per la Palestina, quelli che non vogliono fare un minuto di silenzio per Giulia Cecchettin ma solo tanto tanto rumore. La scuola che non ricopia le discriminazioni della società, che non ha esisti prestabiliti, che prova a trasformare in responsabilità collettiva la colpa individuale dell’insuccesso scolastico.
Ma qualunque sia stata la scuola che abbiamo incontrato, alla fine per tutti c'è un esame e un voto che difficilmente riesce a tenere insieme tutta la complessità e che ha a volte l'aspetto di una medaglia in una gara che servirà per partecipare ad altre gare. Trovare lavoro, guadagnare abbastanza per ottenere diritti come la casa o la salute, continuare a studiare per accumulare ancora più capitale sociale e culturale.
Quello che spesso non ci dicono però, alla fine, è che in questo percorso c’è chi ha abbandonato prima o che prenderà diplomi con meno valore nella nostra società, e avrà, così ci dicono le statistiche, una vita più difficile, con meno diritti. Specialmente nel futuro prossimo in cui stanno entrando gli studenti e le studentesse che stanno per maturarsi che, ancora i dati ci dicono, sarà caratterizzato da sempre più disuguaglianze e forme di povertà.
Così l’augurio allora è che questa maturità non sia solo un voto e che quella parte di scuola che ci vuole disuniti, competitivi e silenziosi, non sia dimenticata dopo il diploma ma elaborata in un modo diverso e che si trasformi in un qualcosa che farà essere più curiosi e attenti verso le generazioni successive, come le generazioni precedenti non lo sono state. Che farà venire voglia di cambiare l’educazione, oggi ancora troppo verticale e ancora troppo piena di forme di privilegio, per chi verrà dopo. Che sia una maturità che lasci spazio a quelle forme di lotta e resistenza incontrate nelle aule e nei cortili delle scuole per farle diventare, in modo indelebile: voglia di non esercitare più potere ma solo forme di cura. O, come direbbe bell hooks: “per riconoscersi, per riunirsi, per ricominciare.”
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