Anche l’adulazione può essere un’arte, e all’assemblea di Confindustria la piaggeria del presidente, Carlo Bonomi, ne è stata ben lungi. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, non sarebbe lì se fosse uno sprovveduto, non si lascerà arruolare come uomo dei poteri forti, che non sono neanche tali: vorrebbero infatti, ma non possono, per la “contraddizion che nol consente”.

Il ruolo dell’imprenditoria

Forti sarebbero se avessero, come parte essenziale della classe dirigente, mirato, oltre che al particulare, anche allo sviluppo civile. L’Italia è fra gli ultimi nell’eurozona per sviluppo perché molti, nelle classi che tanto disprezzano i politici, le votano contro, con piedi e portafogli.

Qui rileva soprattutto un punto: votano contro quanti non fanno seguire al profitto, giustamente perseguito, l’investimento che ne è la giustificazione, sociale e anche economica, e quanti, imitando il mercato finanziario, privilegiano l’oggi, se non ieri, sul domani (non è una pubblicità per Domani). Quanti ancora preferiscono le rendite, che vorrebbero trasformare in perpetue, con le conseguenze anche tragiche di Genova tre anni fa, o quanti tengono a stecchetto l’impresa a vantaggio della famiglia.

Ecco il punto: quel che Draghi, come ogni governante serio deve difendere è il ruolo, in un paese civile, dell’impresa, vero motore dello sviluppo, il cui interesse spesso è distinto da, a volte perfino opposto a, quello dei controllanti.

Perciò l’investimento non segue al profitto, e l’imprenditoria italiana, nell’insieme, non brilla per prodotti che richiedono molta ricerca e sviluppo; se abbiamo pochi laureati e tecnici qualificati è perché non servono a molti nostri imprenditori. Tanti laureati, a molte decine di migliaia, emigrano, perché all’estero il bisogno c’è. Questa emigrazione non agita la politica, spaventata invece, come noi che l’eleggiamo, dall’immigrazione. Sarà forse ingenuo chiedere all’imprenditoria di essere migliore del paese; la smetta però con la finzione di essere “classe generale”.

Draghi versione populista

A Confindustria, Draghi ha ripetuto, sulle tasse, una frase che è un esempio, in lui raro, di populismo: questo è il momento di dare, non di prendere. È vero, oggi, a livello di sistema, ma se c’è un tema in cui non si può stare sulle generali è proprio questo, e la pandemia ha immiserito, ma anche beneficato. Nella macchina fiscale le mani van messe, e nessuno più di un governo d’eccezione può, quindi deve, farlo.

La commissione parlamentare che doveva darci i grandi princìpi della riforma ha disegnato un fisco da paese dei balocchi; a chi, come Draghi, crede che l’Italia sia un grande paese civile, tocca bere l’amaro calice e riempire il vuoto lasciato dalla commissione. L’agenda è fitta di temi, ma dopo settant’anni di discussioni utili solo a perpetuare i privilegi di chi sta già bene, è anche ora di riformare il catasto.

Se non lo fa l’uomo della necessità (copyright Carlo Bonomi), non la farà nessuno per altri settant’anni; ne parleranno ancora, da pensionati al bar, i nostri nipoti nel 2100.

 

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