Si moltiplicano le detenzioni arbitrarie di persone che vengono dai paesi con cui Trump ingaggia la sua battaglia. E si moltiplicano le rinunce da parte di studiosi di quei paesi a recarsi negli Stati Uniti per presenziare a convegni e conferenze. Non si può pretendere che rischino la detenzione, ma rimane una sensazione triste, di un mondo che non c’è più, una sconfitta avvenuta nella mente e nel cuore
La primavera è la stagione in cui si programmano le trasferte ai convegni, per chi fa il mio mestiere. Si programmano viaggi, si invitano colleghi e colleghe. Ma la primavera che stiamo vivendo è triste, perché è una primavera di guerra. Una guerra tradizionale, nei due luoghi del pianeta dove cadono le bombe e volano i droni (o almeno nei due luoghi di cui più parliamo). Una guerra tradizionale continuata con altri mezzi – dazi, prese di posizioni minacciose, discussioni accese sulle armi – nelle stanze e nelle piazze della politica.
Ma anche una guerra della mente, che incute più paura: la guerra strisciante che l’amministrazione Trump sta facendo alle università, con tagli arbitrari dei fondi, e agli stranieri (a certi stranieri). Si moltiplicano le detenzioni arbitrarie di persone che vengono dai paesi con cui Trump ingaggia la sua battaglia – Canada, Francia, recentemente. Si moltiplicano le rinunce da parte di studiosi a recarsi negli Stati Uniti per presenziare a convegni e conferenze.
Alcuni l’hanno dichiarato pubblicamente – come Arash Abizadeh che ha scritto che non se la sente di esporsi al rischio di un arresto. Abizadeh è uno studioso iraniano-canadese, autore di studi fondamentali su Hobbes e sull’etica dell’immigrazione, in cui sostiene che nessuno stato democratico ha diritto di chiudere unilateralmente le frontiere agli immigrati. Molti hanno fatto come lui, rinunciando a partire. Molti e molte hanno osservato che è la cosa giusta, dopo tutto.
Non si può pretendere che studiosi e studiose rischino la detenzione da parte di un regime sempre più feroce. Ma rimane una sensazione triste, di un mondo che non c’è più, di una sconfitta già avvenuta nella mente e nel cuore. Se luoghi che erano casa per tutti noi diventano posti pericolosi, allora è come se la guerra fosse arrivata pure lì.
Ci vuole senso delle proporzioni, ovviamente: gli accademici delle università israeliane hanno perso anche la possibilità di non andare, di difendersi sottraendosi. E così i colleghi e le colleghe ucraine. Non è paragonabile al senso di perdita che alcuni di noi hanno quando sentiamo l’inquietudine sottile di passare la frontiera degli Usa o cerchiamo di prendere familiarità con le nuove procedure di ingresso nel Regno Unito, dove solo pochi anni fa andavamo come fosse il cortile di casa nostra.
E però forse si tratta di facce della stessa medaglia. Un modo sottile di far trionfare questa visione caricaturale e irrigidita della nazione e della cultura è quello di cedervi, come una sorta di reazione irriflessa. La reazione di chi ha sentito il bisogno di elencare i campioni della cultura europea, di chi accetta la divisione in sfere e blocchi di un mondo che sino a poco fa era villaggio globale, almeno dal punto di vista culturale – con tutte le lamentele per l’omologazione. La reazione di chi si sente di proteggersi dal rischio, ma non menziona chi quel rischio ce l’ha in casa e non può certo andarsene.
Se non andiamo più, se non facciamo sentire la nostra solidarietà a chi cerca di fare argine al turbinio di offese, provocazioni, passi minacciosi e uno strisciante cambio di regime, non abbiamo forse perso, non gliel’abbiamo data per vinta? Se non distinguiamo fra leader politici, i loro elettori ed elettrici, e le mille facce della cultura di un paese, non l’abbiamo data vinta ai populisti che pretendono di rappresentare l’unico popolo vero? Quando è scoppiata la guerra in Ucraina ci sono state patetiche censure sulla cultura russa, di cui per esempio ha fatto le spese Paolo Nori.
L’europeismo di alcuni, di recente, ha avuto un di più di schematismo e virilismo, una pretesa di indicare un primato di civiltà della cultura europea. Ma il vero primato di civiltà della cultura europea è l’idea che certi valori siano di tutti, che abbiano radici comuni, il riconoscimento delle radici multiculturali inevitabili di qualsiasi cultura nazionale e società.
Il punto non è dire: noi facciamo così, voi non lo fate, e quindi non vogliamo avere niente a che fare con voi, oppure verremo a civilizzarvi. Questa cosa la migliore Europa se l’era lasciata definitivamente alle spalle, con decenni di studi post-coloniali, di antropologia illuminata, di lotta all’etnocentrismo. Ritornare al baluardo di civiltà e alla fortezza da difendere è un cedimento all’idea centrale del sovranismo. Non farlo potrebbe anche richiedere il coraggio di rischiare, di provare a vedere sino a dove si potranno spingere. Un coraggio certo non obbligatorio, ma comunque ammirevole.
© Riproduzione riservata