Il Libro Bianco della difesa certo presenta rischi e incertezze, ma le su disposizioni contribuirebbero a sostenere la domanda interna in una fase di prevedibile turbolenza del commercio estero. Una opportunità che il nostro paese non sembra interessato a cogliere
Dunque, tanto rumore per nulla? Il Consiglio europeo appena concluso pare aver rinviato ogni decisione a giugno, nonostante si fosse trovato sul tavolo (sia pure solo all’ultimo momento) un menu piuttosto ricco di scelte da fare.
Se le divisioni e le esitazioni emerse fra i 27 non sono facilmente riconducibili a un unico fattore, l’effetto cumulativo del rinvio non è stato comunque incoraggiante.
Nuovi incentivi
Mercoledì scorso, poche ore dopo la decisione del Bundestag di avviare il proprio riarmo stanziando cifre molto superiori a quelle citate da Ursula von der Leyen per l’intera Ue, la Commissione e il Servizio di azione esterna avevano finalmente reso pubblico il loro Libro Bianco, intitolato – con opportuno re-branding – “Defence Readiness 2030”. Il documento ha offerto, oltre un’analisi più a largo raggio, anche alcune chiarificazioni sui nuovi incentivi per rendere l’Europa più “pronta”, appunto, per le nuove sfide alla sua sicurezza.
Lo strumento centrale è il fondo straordinario di cui si era già parlato – ora battezzato Safe (Security and Action For Europe) – per un ammontare massimo di 150 miliardi di euro su quattro anni. Il fondo, che recupererebbe risorse non spese dal bilancio comunitario per il 2021-27, si propone di offrire prestiti a tassi molto favorevoli, restituibili entro 45 anni, per sostenere acquisizioni comuni di equipaggiamento militare fra almeno due stati: uno dovrà necessariamente essere un partner Ue, ma il secondo può anche essere un membro dello Spazio economico europeo e/o dell’Efta (come Norvegia e Svizzera), la stessa Ucraina, ovvero uno stato con cui l’Ue abbia siglato un partenariato di sicurezza e difesa: è il caso di alcuni paesi balcanici candidati e di Corea e Giappone, e se ne sta discutendo con Canada e Gran Bretagna.
L’altro strumento-chiave è la deroga immediata (sulla base dell’articolo 122 del Tfue) alle regole del Patto di stabilità per eventuali spese supplementari in materia di difesa – fino all’1,5 per cento del Pil – per una durata di quattro anni (di nuovo, fino al 2030).
Sulla deroga esiste già un accordo fra Commissione e stati membri, ed è proprio da qui – cioè da una proiezione a medio termine del massimo impatto possibile di tale aumento a 27 – che viene la stima-limite di altri 650 miliardi di investimenti a livello Ue. Ma mentre i 150 miliardi di Safe rappresenterebbero un fondo già disponibile (su richiesta), gli altri 650 sono ancora del tutto virtuali, e comunque soggetti a decisioni nazionali.
E dopo il 2030? La deroga potrebbe essere rinnovata – se ci sarà consenso fra i governi – mentre per i fondi comunitari tutto dipenderà dai futuri negoziati a 27+1 (il parlamento di Strasburgo) sul bilancio Ue per il 2028-2035.
Si può ovviamente – e legittimamente – sostenere che il “pacchetto” contenuto nel Libro Bianco presenti insufficienze e perfino rischi, e molti suoi elementi andranno comunque ancora chiariti (e negoziati) all’interno del sistema istituzionale comunitario. Se e quando approvate, tuttavia, le sue disposizioni contribuirebbero fra l’altro a sostenere la domanda interna in una fase di prevedibile turbolenza (e contrazione) del commercio estero.
Parlare di una vera e propria securonomics è forse eccessivo, ma non c’è dubbio che l’autonomia operativa – prima ancora che strategica – dell’Europa passi anche di qui, come parte di quel de-risking che l’Ue sta promuovendo anche in altri ambiti dell’economia e della sfera pubblica.
Per Roma, il “pacchetto” presenta una serie di opportunità – la deroga era una sua vecchia richiesta, i prestiti avrebbero un impatto minimo sull’indebitamento, l’industria italiana della difesa (gruppi maggiori e Pmi) è competitiva e sta aumentando le joint venture con altre imprese europee – ma anche qualche incognita, dall’eventuale inclusione di partner britannici e turchi al ricorso ad altri strumenti finanziari (eurobond e non solo).
Ma rappresenterebbe comunque, per un paese che ha stentato a rispettare il target Nato del 2 per cento del Pil (destinato ad impennarsi presto, anche su pressione americana), un’occasione preziosa per diventare un partner più credibile a livello europeo e transatlantico. Ma Roma sta quasi dando l’impressione di volerla perdere.
Alla voce benaltrismo
Allo stesso tempo, invocare come soluzione – come è stato fatto (solo) in Italia – una difesa comune e un esercito europeo, pur costituendo un’ambizione condivisibile (e sulla cui fattibilità andrebbe avviata al più presto una seria discussione), suona un poco come un’ennesima forma di benaltrismo.
Non solo infatti non è contemplata dai trattati in vigore, ma lo stesso vertice di ieri ha mostrato come non sia affatto all’ordine del giorno.
Fra una maggioranza che nicchia – stretta fra preoccupazioni fiscali e simpatie trumpiane e putiniane – e opposizioni che negano la realtà, il rischio per l’Italia è quello di auto emarginarsi sia politicamente che economicamente da una traiettoria che rimane indispensabile per rendere l’Europa più “pronta” e, appunto, Safe, sicura.
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