Con una sentenza, a seguito di ricorso della Procura generale di Milano e della parte civile – assistita dall’avvocata Teresa Manente, responsabile dell’ufficio legale dell’associazione Differenza Donna – la Corte di Cassazione ha annullato l’assoluzione pronunciata nei confronti di un uomo imputato per violenza sessuale, rinviando il caso a una nuova sezione della Corte d’Appello di Milano.

Il caso è emblematico: una lavoratrice, una hostess, si era rivolta a un rappresentante sindacale per ottenere un parere su una vertenza lavorativa. Durante l’incontro, l’uomo – dopo aver chiuso la porta e posizionato la donna con le spalle all’uscita – si era avvicinato alle sue spalle e aveva dato avvio a una serie di toccamenti sessuali espliciti, culminati nel contatto con le parti intime. La donna, inizialmente sorpresa e disorientata, aveva protestato dopo pochi secondi, interrompendo l’azione.

Secondo il Tribunale di Milano prima, e la Corte d’Appello poi, non vi sarebbe stata violenza sessuale perché la donna non aveva reagito «in modo adeguato», né l’uomo aveva agito con minaccia, forza o abuso di autorità. L’imputato – affermavano i giudici – non avrebbe potuto percepire chiaramente il dissenso, poiché si trovava alle spalle della donna.

Contro la logica patriarcale

È su questa logica patriarcale che la Cassazione è intervenuta con fermezza, riaffermando che la violenza sessuale non si misura sulla base della reazione della vittima, ma sulla compressione della sua autodeterminazione. La Corte ha ricordato che il reato si consuma anche attraverso atti improvvisi e insidiosi, indipendentemente dalla durata, dalla reazione, o dalla finalità dell’aggressore. Ha poi ribadito che il consenso non può essere presunto, né ricavato dal silenzio o dall’inerzia e che non spetta alla vittima dimostrare il proprio dissenso, ma all’autore accertare la volontà dell’altra persona.

Questa affermazione capovolge la narrazione sociale dominante, che troppo spesso straripa anche nelle aule giudiziarie, secondo cui la donna è chiamata a dimostrare non solo ciò che ha subito, ma come ha reagito, se ha urlato, se si è divincolata, se è stata “abbastanza chiara”. Una logica che produce non solo impunità, ma rivittimizzazione sistemica.

La Corte ha inoltre chiarito che la valutazione del fatto deve tener conto dell’intero contesto: la fiducia riposta nella figura dell’interlocutore, il fraintendimento strumentale delle parole della donna, la posizione fisica dell’uomo, l’ambiente percepito come sicuro e la sorpresa paralizzante. È questo il cuore della decisione: la violenza sessuale non si consuma solo con brutalità fisica, ma anche con il tradimento di relazioni di fiducia, con la manipolazione, con la sopraffazione silenziosa.

Ancora più rilevante è il passaggio sul consenso: la Corte ha richiamato con nettezza il dovere dell’autore dell’atto sessuale di accertarsi del consenso altrui, anche quando si tratta di gesti che il senso comune – profondamente sessista – considera “minori”, come un toccamento, un bacio, un contatto corporeo non richiesto. Ma non esistono gesti minori quando violano il corpo e la volontà di una persona.

Il Collegio ha anche valorizzato l’elemento soggettivo, riconoscendo che l’imputato ha agito consapevolmente, scegliendo di dissimulare l’aggressione sotto forma di gesto apparentemente accudente, come spesso accade nei luoghi di lavoro, nei contesti di cura o mediazione, dove la violenza si mimetizza nella relazione e si fa passare per intimità.

La riforma 

Questa decisione arriva in un momento decisivo anche per il legislatore. È attualmente in discussione la proposta di legge C.1693, che intende riformare l’articolo 609-bis c.p. spostando finalmente il baricentro del reato sulla mancanza di consenso e non più sulla prova della forza o della minaccia. La riforma, se formulata correttamente, rappresenterebbe una svolta necessaria per sottrarre il diritto penale alla cultura della colpevolizzazione delle donne.

Nel corso dell’istruttoria parlamentare, Differenza Donna in sede di audizione dinanzi alla Commissione Giustizia, ha proposto una riformulazione che riconosca la libertà sessuale delle donne come bene giuridico primario e non condizionato, e che ponga al centro la responsabilità dell’autore e non la reazione della persona offesa.

Le osservazioni presentate hanno messo in luce che l’attuale formulazione espone le donne a gravi forme di vittimizzazione secondaria, costringendole a giustificare i propri silenzi, a raccontare i propri traumi sotto minaccia di discredito, a performare una reazione che appaia “coerente” con lo stupro per essere credute.

È esattamente quanto ha rilevato anche il Comitato CEDAW nel caso A.F. c. Italia, che nel 2022 ha condannato il nostro paese per violazione dei diritti delle donne che denunciano violenza sessuale. Il Comitato ha riconosciuto che, a causa della formulazione stessa del reato e della sua interpretazione giudiziaria, le donne sono esposte a prassi discriminatorie e processi permeati da stereotipi sessisti, e ha raccomandato all’Italia una riforma che centri l’intera fattispecie sul consenso, in conformità con l’articolo 36 della Convenzione di Istanbul.

Oggi, la sentenza della Cassazione – che richiama il contesto, la dinamica relazionale e la volontà dell’agente – conferma che la riforma è un atto dovuto insieme al cambiamento culturale che promuove rovesciando l’asimmetria strutturale con cui il diritto ha guardato alla sessualità, alla credibilità e alla soggettività delle donne.

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