La recente decisione dell’Alta Corte del Regno Unito, che ha sentenziato che i drivers di Uber sono effettivamente lavoratori e non liberi professionisti/imprenditori, sancisce un precedente importante e traccia una linea di principio piuttosto chiara: il business model della gig economy è in contrasto con le regole che le democrazie occidentali si sono date.

Non è una sentenza inaspettata a dire il vero: tutti i gradi di giudizio inferiori avevano dato la stessa risposta; ed anche tribunali in vari Stati americani, in Canada e in Francia erano giunti alle stesse conclusioni. Ed è proprio di queste ore la notizia che la procura di Milano ha lanciato un’indagine fiscale sulle società che utilizzano i riders per la consegna del cibo: oltre le multe per 700 milioni di Euro, secondo il Procuratore Francesco Greco sono oltre 60 mila i fattorini che dovrebbero essere inquadrati come “lavoratori coordinati e continuativi” e non come autonomi.

Il valore di queste sentenze va però ben oltre la pur importantissima legislazione sul lavoro, e ci costringe ad interrogarci su due questioni cruciali per il futuro: da una parte le regole ed i rapporti di forza all’interno di quella istituzione chiamata mercato, che chiama in causa anche il ruolo dello Stato ; e dall’altra la relazione tra la società e le sue forme organizzative e il mercato stesso.

Rule of law o far west

Per quanto riguarda la prima questione, per anni si è insistito molto sul concetto di rule of law come pre-condizione per un mercato funzionante ed efficiente. Spesso però si è declinato questo concetto in termini restrittivi, concentrandosi cioè sui limiti da porre all’azione politica per impedire che danneggi l’attività economica. In realtà il modello-Uber inquadra un tipo di mercato “senza regole”, in diretto contrasto con quella rule of law che dovrebbe difendere il mercato, anche da se stesso. L’aver in maniera quasi plateale disatteso le normative vigenti ha danneggiato, illegalmente, altri agenti del mercato: i lavoratori, ma anche le aziende concorrenti che hanno perso profitti e quote di mercato.

Come ha sottolineato il Financial Times, si pone dunque un problema di effettivo rispetto e implementazione delle regole. In UK Uber è riuscita a ritardare la sentenza per oltre cinque anni. Altrove le cose sono pure peggior: in California, dopo che vari gradi di giudizio avevano dato ragione alle richieste dei lavoratori, costringendo i legislatori di Sacramento ad intervenire, Uber e Lyft sono riuscite ad imporre un referendum – in cui sono state investite ingentissime risorse – per ribaltare la legislazione vigente. Il fenomeno non è ristretto al car sharing; esemplare è il caso, poco noto, di Arise, una società che si occupa di customer service per grandi compagnie come Disney o Hbo. Nonostante gli ispettori del Ministero del Lavoro avessero accertato che la compagnia violasse la legislazione sul lavoro, di fronte al rifiuto di Arise di pagare non è seguita una azione giudiziaria: molto semplicemente nemmeno lo stato federale Usa ha le risorse per combattere in tribunale contro dei colossi industriali.

Per di più, come ben sa chiunque segua le dinamiche dell’economia politica americana, il cosiddetto political capital, il coltivare e finanziare ottime relazioni con le istituzioni legislative e giudiziarie per ricavarne profitti, o meglio, rendite, è una delle principali attività del big business. Il mancato rispetto della rule of law, quando non proprio modifiche legislative ad hoc, son esempi di state capture, l’asservimento dell’interesse generale al tornaconto privato.

Cittadini e consumatori

Più in generale, il caso della gig economy, e dunque di un mercato senza regole, mette in discussione alcuni pilastri della società contemporanea, a cominciare dai diritti dei lavoratori – dal riposo alla malattia. Il business model di compagnie come Uber si basa sulla sottile ideologia della customer satisfaction. Uber fornisce un servizio spesso più efficiente e, quasi sempre, meno caro del taxi; così come Amazon è competitivo rispetto ai negozi privati. Ci sono però ricadute sociali che derivano proprio dalla contrapposizione tra benessere individuale e collettivo: tra le altre, diseguaglianze, povertà, emarginazione. In effetti, esiste un conflitto inerente tra consumatore, interessato a massimizzare la propria utilità, e cittadino, preoccupato di vivere in una società che minimizzi il conflitto. La domanda, che precede di più di un secolo la pseudo-innovazione della gig economy, è se debba essere la società ad organizzare il mercato, che era la soluzione adottata dalle democrazie occidentali nel 1945; o se, al contrario, sia il mercato a dover essere egemone e ci si debba muovere, come è avvenuto in questi ultimi decenni, verso quella che Polanyi chiamava market society. Non è certo un caso che fenomeni quali la precarizzazione, l’incertezza del futuro e la riduzione di alcuni diritti abbiano contribuito ad una crescente rabbia tra la popolazione nonché ad una disarticolazione della struttura sociale, ad una sempre maggiore polarizzazione politica ed ad una conseguente crisi di legittimità delle nostre democrazie. Argomenti su cui urge, ora più che mai, un dibattito di ampio respiro.

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