La più brutta campagna di sempre? Mah, si corre il rischio di esagerare perché, a dirla tutta, neppure il passato ha sempre custodito contesti illuminati e illuminanti nello scontro tra biografie, simboli e idee. Mettiamola così, possiamo pure rimpiangere la consonante arrotata di Jader Jacobelli, ma non basterebbe a comprendere le dinamiche innescate da un’era di social invasivi e media onniscienti. Comunque, fosse solo per gusto retrospettivo un cenno su quel passato merita. Cominciamo col dire che la formula stessa di “tribuna politica” rimanda a quel bianco e nero che fa assai “Techetechetè”. Il debutto del format risale all’anno delle olimpiadi romane, 1960. Parliamo della televisione perché il battesimo di una campagna radiofonica era avvenuto parecchio prima, il 22 aprile del 1946, con una cinquantina di minuti quotidiani dedicati al voto per l’Assemblea costituente e il referendum istituzionale. Si procedeva comunque a piccoli passi tanto che nelle elezioni del 1958, le prime dopo la legge truffa, la televisione si guardò bene dall’inscenare uno scontro riservato ancora per un po’ a palchi, piazze e organi di partito. Dunque, 1960. In un pugno di mesi l’Italia fece i conti con la repressione di Tambroni, il medagliere di Berruti e Benvenuti sino alla scomparsa di Mario Riva, storico conduttore de Il Musichiere, primo esemplare di game show importato dall’americana Nbc è adattato alle musichette di noialtri. Da lì in avanti nulla o quasi avrebbe somigliato al prima, s’imponevano gli anni e i costumi del boom e la Rai il suo contributo lo diede. L’Un due tre di Tognazzi e Vianello, anch’esso mutuato da un successo oltre oceano, in questo caso Your Show of Shows, autori Mel Brooks, Woody Allen, Neil Simon, e non serve aggiungere altro.

Novità dalla Rai

Tornando alle tribune, assieme a Carosello e La Domenica sportiva furono tra i pochi parti originali dei piani alti del servizio pubblico. Il lancio venne incoraggiato da Amintore Fanfani, da poco presidente del Consiglio e fu tutt’altro che un flop con una media di quattordici milioni di spettatori, e non stiamo lì a sottilizzare sul fatto che si guardasse quanto passava il convento. Il debutto avvenne l’11 ottobre 1960, protagonista il ministro dell’interno Mario Scelba: «Tocca a me il compito di aprire questo dibattito elettorale…e vi confesso che avevo una qualche perplessità a prendere la parola alla televisione…non possiamo avere le qualità fisiche di coloro che sono così popolari tra i telespettatori…vi dovrete accontentare di quello che vi possiamo offrire…belli o brutti che siamo».

Ora, su quel “belli o brutti” pensando all’involuzione successiva si potrebbe imbastire un’analisi sociologica. Diciamo che era la forma semplificata per rivendicare una professionalità della politica. Tradotto, i partiti assorbivano spinte che la fine dei loro apparati ideologici avrebbe finito col lasciare senza un ordine in una miscela di pulsioni spesso orfane di virtù civiche e un’etica condivisa. All’epoca la par condicio si impose come fatto naturale. Facciano testo le parole di Gianni Granzotto, moderatore delle prime messe in onda: «Moro mercoledì. Michelini giovedì, Togliatti venerdì. La televisione è uguale per tutti».

Disuguaglianze di schermo

In verità lo schermo si rivelò sinonimo di uguaglianza per un tempo piuttosto breve. Soltanto quindici anni più tardi la riforma di Viale Mazzini aprì la strada a una storica lottizzazione con la prima rete in appalto ai democristiani, la seconda ai socialisti e i comunisti confinati a un terzo canale che neppure copriva col segnale l’intera penisola. Nacquero lo stesso pagine di una tivù a misura di urne: il Pannella muto e imbavagliato, quelle tribune-conferenze stampa scortate da gruppi d’ascolto casalinghi o in sezioni di partito. Più o meno si andò avanti così per un paio di decenni, col capo dei missini “che parlava bene”, le pause craxiane, il “verbo” berlingueriano e la dotta grammatica di Spadolini o La Malfa. Finché sulla scena di televisione e politica mischiate senza più soluzione di continuità compare il “marziano”. Gennaio 1994, inizia l’era berlusconiana, prototipo domestico di azienda personale mutuata in partito. Giunti lì le campagne cambiano radicalmente di segno e senso. La selezione dei volti e delle voci sempre meno risponde a criteri di capacità mentre si impongono canoni estetici e profili più consoni al notabilato che a una democrazia partecipata. Ma soprattutto a moltiplicarsi sono i contenitori con una copertura orientata a non lasciare scampo e inseguire (perseguitare?) l’incolpevole cittadino-elettore dall’aurora a notte.

Partita truccata a destra

Ora, non si legga la nota come scaricabarile di colpe in capo alla politica e a chi la incarna. La qualità di una competizione deriva da identità e proposte che singoli soggetti sono in grado di elaborare. In questo senso però, e veniamo a noi, la destra gioca una partita truccata godendo del clima di favore sulle reti di sua indiretta proprietà e sbianchettando responsabilità nell’esercizio del potere. Su quest’ultimo aspetto colpisce la nonchalance con cui leader e loro epigoni traversano l’acquazzone senza bagnarsi e riproponendo soluzioni impraticabili. Ascoltare il capo della Lega ripetere che appena al governo abolirà la Fornero una punta di sarcasmo dovrebbe indurla, perché il medesimo impegno lo aveva espresso nel 2018 col risultato che una volta al potere aveva ripiegato sulla più costosa e iniqua “Quota 100”, finestra di uscita dal lavoro per chi nei tre anni a seguire avesse cumulato 62 anni di età e 38 di contributi. Risultato? Prevedevano di mandare in pensione un milione di persone, ne sono uscite meno della metà e il motivo è che 38 anni di contributi penalizzano le donne con carriera discontinua assieme a tutto l’universo precario. A completezza, chi ha davvero sanato le storture della Fornero siamo stato noi, le forze del centrosinistra, con nove salvaguardie per gli esodati, il rinnovo di opzione donna e l’estensione dell’Ape sociale a oltre venti categorie di lavori gravosi e pesanti. Vuol dire aver dato priorità a chi a sessant’anni su una impalcatura non può più arrampicarsi o chi per anni è stato impiegato in turni notturni. Cosa è più consono a un principio di giustizia? Una propaganda che si replica o agire sulla base di criteri di equità? È solo uno tra gli esempi possibili. Lo stesso si potrebbe dire dell’annuncio di un prossimo blocco navale, azione tecnicamente impossibile e impedita dall’articolo 42 dello statuto delle Nazioni unite. Ma perché su questi come su altri dossier la “peggiore” campagna elettorale non prova a esercitarsi nell’arte preziosa di formare un’opinione consapevole garantendo completezza di dati senza i quali la dialettica tra diversi in un lampo degenera in gazzarra? Del resto proprio questo imprevisto precipitare verso elezioni autunnali dovrebbe rammentare come in ogni contesto i grandi mutamenti – fossero la ferrovia, l’elettricità, la rete e il digitale – sono sempre poggiati su enormi investimenti di risorse pubbliche, volano i di uno scarto dell’iniziativa privata e creativa.

Ruolo nuovo dello stato

Tra una ventina di giorni andremo alle urne e accadrà in un passaggio di tempo che rientra in quel novero nel senso che la combinazione tra rischi di stagflazione, code della pandemia e l’irrompere della guerra nel cuore del continente, mette la politica nella condizione di immaginare un ruolo nuovo dello stato. La prova è farlo usando al meglio le risorse che l’Europa ha messo a disposizione. Oggi questa brutta campagna un’emergenza ce la restituisce nella sua interezza, ma appunto per questo non è dato sottrarsi al peso che ne deriva e se un compito l’informazione – radio, televisione, analisti e social – debbono assolvere è proprio evitare che una simile stagione si riduca a comizio. Allora, deve per forza essere questa che stiamo vivendo la campagna più mortificante degli ultimi decenni? Forse no. Forse una tale condanna possiamo evitarcela, ma per riuscirci bisognerebbe che almeno alcuni, noi da sinistra proviamo a farlo, offrissero la percezione della posta in gioco che non è una semplice esibizione muscolare, ma la fatica di restituire al “dire” della politica quel tratto di profondità andato smarrito nel tempo. E non si pensi che quel richiamo a un pensiero meno improvvisato o schiavo della battuta a effetto debba per necessità sacrificare la capacità di esprimere concetti chiari e persino appassionare. Non un comico come Grillo, ma un ex partigiano come Giancarlo Pajetta sull’Espresso di molti anni fa raccolse il plauso inatteso di una firma non sempre benevola. Fu Sergio Saviane a definirlo «un grande attore televisivo, uno dei pochi capaci di suscitare un vero interesse per questa trasmissione non soltanto negli specialisti, ma anche nel telespettatore che ha appena pranzato…Pajetta è il solo che sappia trasformare una conferenza in uno spettacolo». Anche in bianco e nero c’era chi sapeva farlo!

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