Le parole utilizzate dall’Associazione dei palestinesi in Italia (Api) per prendere le distanze dalle manifestazioni del 6 e del 7 giugno sono a mio parere vergognose, il sintomo di una premoderna eredità musulmana, che non ha mai fatto i conti con quel millenario antigiudaismo islamico incapace di riconoscere agli ebrei il diritto all’autodeterminazione, che ha trovato sede negli odierni movimenti fondamentalisti.

Purtroppo, assecondato dall’antisionismo di un progressismo radicale europeo a sua volta espressione di quel mai risolto antigiudaismo occidentale, che ha sempre chiesto agli ebrei di abbandonare i propri elementi identitari. Così il mondo ellenistico (vedasi festività di Hanukkà), così il cristianesimo (che aggiunge il carico di conflittualità tipico dei rapporti di fratellanza), così per l’illuminismo (il deputato del parlamento rivoluzionario Clermont Tonnerre: «Agli ebrei tutto concesso come individui, niente come nazione») e il bolscevismo, che risolve il tema ebraico col pamphlet staliniano del 1913, rielaborazione delle tesi della Questione ebraica marxiana.

Le posizioni di cui all’inizio sono pure politicamente miopi rispetto ai processi che rischiano di alimentare. Tranne il riproporsi di scenari da anni ’30, i governi europei non ritireranno mai il proprio riconoscimento alla legittimità di uno Stato ebraico. E non per questo inesistente senso di colpa per la Shoà ripetuto a macchinetta da un’intellighenzia che a volte sembra ignorare passaggi fondamentali della storia di Israele, la cui formazione fu piuttosto messa in pericolo dall’ascesa del nazismo in Europa. Bensì perché, per ragioni che hanno la propria origine nel quadrante geopolitico della guerra fredda, Israele è il principale alleato dell’Occidente nell’area mediorientale.

Di qui, non altro, la difficoltà di interrompere partnership strategiche oggi inquinate dalla leadership di Netanyahu, di cui tutti, governi arabi e europei, stanno aspettando la fine politica. Contando anche che il premier israeliano ha 75 anni e tra Medio Oriente ed Europa ci sono in ballo interessi che guardano ai prossimi decenni. Da un gasdotto pan-regionale che integri i sistemi di Israele, Giordania, Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, fino al corridoio IMEC che dovrebbe collegare l'India all'Europa attraverso il Medio Oriente.

Le dichiarazioni dell’Api rischiano di alimentare il pregiudizio islamofobo che rappresenta i musulmani come popolo imperialista, che esporta nelle società altrui violenza ed ogni tipo di male possibile, tra cui l’antisemitismo. Come se l’Europa della Shoà avesse bisogno di maestri in merito. Naturalmente, sono parole già lì pronte per essere sfruttate sia dalla destra europea che da centro e sinistra moderati.

Queste posizioni, in totale contraddizione con l’evoluzione del Medio Oriente dagli anni ’90 ad oggi, non rappresentano certo tutto l’Islam italiano ed europeo. Basta ricordare la Coreis (Comunità Religiosa Islamica Italiana), ma molte le figure musulmane con cui io stesso non ho mai smesso di dialogare riescono a mantenere l’ovvia critica alla sciagurata guerra condotta dal governo israeliano senza farla diventare il pretesto per riesumare antiche strategie di cancellazione dello Stato ebraico. Basta fare riferimento alle parole dell’Autorità Nazionale Palestinese, che, rivolta a Hamas, ha scritto recentemente per mano del suo membro Muwaffaq Matar, mai tenero con Israele, sul proprio quotidiano Al‑Hayat Al‑Jadida: «Rilasciate subito gli ostaggi, vivi e morti, uscite dai tunnel, ammettete il vostro crimine e poi per la vergogna sparate un colpo in testa ai vostri capi e a voi stessi».

Questo vasto spettro di realtà, in tempi di guerra, viene definito dagli estremisti collaborazionista. Quando, però, la pulsione di morte avrà fatto il suo corso e consumato il tempo dei conflitti, bisognerà tornare da coloro che hanno sempre lavorato per l’incontro, in tempo di pace e di guerra.

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