Nell’epoca dei flussi comunicativi istantanei, ci sono immagini che, anche sui punti di svolta della politica, dicono più di qualsiasi sofisticata argomentazione. La fotografia di Pablo Iglesias che sta circolando su giornali e web da qualche ora è certamente una di quelle. Tagliata la fluente coda di cavallo che da sempre ne caratterizzava la figura, capelli acconciati in una foggia ordinaria, l’ex leader di Podemos si è fatto ritrarre mentre, seduto comodamente, con un’espressione assorta in volto, getta lo sguardo sul libro aperto fra le sue mani, un pamphlet in cui si incita il lettore «colto e progressista» a diffidare dei film d’essai e «adorare il cinema americano».

Sarebbe difficile trovare di meglio per rappresentare la parabola di un uomo che, dopo aver indossato per sette anni gli abiti del capopopolo e aver cullato almeno verbalmente sogni di rivoluzione, si è ritrovato in poche ore disarcionato dai ruoli di vicepresidente del consiglio spagnolo, di segretario del partito che aveva fondato e persino di militante, giacché, all’indomani del rovescio subito dalla lista da lui capeggiata alle elezioni della comunità madrilena, ha dichiarato di volersi congedare definitivamente dalla politica.

Se si tratti di una mossa tattica o di un radicale cambiamento di vita – che lo riporterà peraltro sui sentieri già battuti dell’insegnamento universitario e dell’animazione di polemici talk show – ce lo dirà il futuro. Quel che è certo è che la sua discesa dal palcoscenico della politica segna la fine di un capitolo cruciale di una vicenda che ha appassionato per più di un decennio una vasta platea, quella del populismo di sinistra, che in Spagna è parsa a tratti inaugurare una stagione di trasformazione radicale della democrazia.

Gettando la spugna, Iglesias ha infatti sancito – quale che sia la sorte che attende la sua creatura – l’ingresso in un vicolo cieco di quella corrente del fronte progressista che, sulla scia della crisi economico-sociale scoppiata nel 2008 e dei successi ottenuti da movimenti e partiti che avevano innalzato la bandiera della lotta agli effetti della globalizzazione sul versante opposto, aveva inteso sfruttare la situazione per sconfiggere simultaneamente la «formazione egemonica neoliberale», la socialdemocrazia e la destra xenofoba ricorrendo all’uso della dicotomia popolo contro oligarchia (o alto contro basso) in dichiarata alternativa all’usurato schema proletariato versus borghesia.

Guardando a sinistra

Sorto per reazione al logoramento dell’estrema sinistra post-sessantottina e allo scivolamento dei partiti socialisti nel «liberalismo sociale» inaugurato dal New Labour di Blair, all’inizio questo filone ha conseguito risultati non indifferenti. Ispirandosi alla teorizzazione di Ernesto Laclau, critica verso l’«essenzialismo di classe» marxista e volta a istituire un collegamento organico fra le domande di tutti i vari soggetti sociali danneggiati dalla globalizzazione neoliberale, prima Syriza in Grecia, poi la France Insoumise in Francia, Podemos, Die Linke in Germania e altre formazioni minori ne hanno illustrato la rapida crescita. E malgrado la marcia indietro di Alexīs Tsipras dopo il vittorioso referendum contro le misure di austerità imposte dalla troika e dall’Unione europea, le sue parole d’ordine hanno fatto breccia in una cospicua sezione dell’elettorato europeo, con punte di consensi che fra 2015 e 2017 hanno toccato il 36 per cento in Grecia, il 21 per cento in Spagna, il 19,6 per cento in Francia.

Prendendo spunto dagli exploit di quei movimenti e cercando di coordinarne e rafforzarne sul piano programmatico l’azione, la filosofa Chantal Mouffe, vedova e collaboratrice di Laclau, ha pubblicato nel 2018 un manifesto teorico (Per un populismo di sinistra, Laterza) che, riletto oggi, dà la misura delle potenzialità, delle difficoltà e delle illusioni del mondo politico a cui si rivolgeva e offre un’utile chiave di lettura dei suoi successivi sviluppi.

Partendo dalla constatazione dell’esistenza di un «momento populista» aperto dalla crisi dei paesi che più si erano aperti alla globalizzazione, Mouffe giudicava il ricorso alla coppia oppositiva sinistra/destra «non più adeguato per articolare una volontà collettiva che contenga la varietà delle domande democratiche oggi in campo» e, sebbene suggerisse di mantenere il richiamo alla prima di quelle due categorie per indicare il riferimento ai valori di eguaglianza e sovranità popolare, puntava alla liberazione del proprio campo dalla subordinazione agli schemi del conflitto di classe e all’impostazione di un programma trasversale di saldatura delle domande insoddisfatte delle vittime del nuovo ordine liberale. Il suo populismo si configurava quindi come una strategia «che opera attraverso la divisione della società in due campi e chiama alla mobilitazione “i derelitti”, chi è sfavorito, contro “chi è al potere”»: non un’ideologia, ma «un modo di fare politica che può assumere forme differenti a seconda del momento e del luogo».

Guardando a destra

Particolare non secondario, in questa visione il popolo non era inteso come un’entità provvista di una propria fisionomia definita, caratterizzato da abitudini, convinzioni e modi di vita consolidati, ma come un’entità da costruire, aggregandovi una maggioranza di individui contraddistinti dalla voglia di ribellarsi contro le ingiustizie subite, nella convinzione che i colpiti dalle politiche neoliberali fossero più numerosi di quanti si riconoscevano elettoralmente nella sinistra. Di conseguenza, l’obiettivo primario che il populismo di sinistra doveva porsi era trasformare la competizione con il populismo di destra in asse centrale del conflitto politico, riconoscendo che molte delle domande articolate dalla controparte «sono domande democratiche, cui bisogna fornire una risposta progressista» e rifiutando la «soluzione fin troppo comoda» di «classificare i partiti populisti di destra come “di estrema destra” o “neofascisti”, e attribuire il loro appeal alla mancanza di cultura di chi li sostiene», come invece fa l’élite intellettuale socialdemocratica, perseguendo una «strategia di demonizzazione dei “nemici” del consenso bipartisan (che) può apparire di conforto sul piano morale, ma è politicamente castrante». Seguendo questa impostazione, il populismo di sinistra avrebbe dovuto «provare a fornire un lessico differente per orientare quelle domande verso obiettivi più egualitari» e convertire gli elettori di Marine Le Pen, Jörg Haider o Matteo Salvini, che si erano «sentiti lasciati indietro» e desideravano un riconoscimento delle loro ragioni, in compagni di strada del progetto progressista.

Scrivendo quelle parole, Mouffe si aspettava di essere ascoltata da Jeremy Corbyn, Jean-Luc Mélenchon, Iglesias e di fornire un viatico ai loro futuri successi. A distanza di meno di tre anni, le sue attese appaiono vane. Delle frustrate ambizioni elettorali di Iglesias si è detto. Di Corbyn è noto l’analoga parabola. Mélenchon galleggia nei sondaggi su cifre che a stento avvicinano il 10 per cento. Tsipras è stato rispedito all’opposizione. La corrente populista di Die Linke, Aufstehen, ha dovuto chiudere i battenti sotto minaccia di espulsione, e sorte analoga hanno avuto gli esponenti più genuinamente populisti de La France Insoumise, Georges Kuzmanovic e Andréa Kotarac, e di Podemos, Íñigo Errejón.

Alla radice di questa débâcle c’è certamente l’incapacità dei leader citati di far proprio fino in fondo il messaggio di cui si erano affermati portatori e di resistere al richiamo delle origini in una sinistra radicale che non riesce a emanciparsi dai vecchi retaggi ideologici, ma anche la fragilità di un approccio che, rifiutando di riconoscere nel popolo un referente empirico e derubricandolo a mera «costruzione discorsiva», ne ha misconosciuto i caratteri di fondo. Le identità dei popoli si trasformano, certo, nel corso del tempo, ma sono il prodotto del coagularsi di processi lunghi e profondi. La pretesa dei populisti di sinistra di rimodellarle dall’oggi al domani attraverso la trasfusione di precetti del politicamente corretto che avrebbero dovuto trasformare la diffidenza verso gli immigrati in apertura alla loro accoglienza e suscitare fra gli elettori dei partiti populisti di destra sensibilità verso le istanze Lgbt, si è scontrata duramente con la realtà. E ha mostrato insufficienze probabilmente irrimediabili.

 

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