Il contesto della politica italiana è già cambiato ma i partiti non se ne sono ancora accorti: con l’annuncio dell’aumento dei tassi di interesse a luglio di ieri, la Bce inizia ad abbassare il suo scudo protettivo sull’Italia. Proprio alla vigilia di un anno elettorale nel quale i leader non potranno più nascondersi dietro Mario Draghi. La credibilità del presidente del Consiglio è intatta, nonostante i risultati ondivaghi del suo esecutivo, ma se i vari Salvini, Letta, Meloni e Conte pensano di passare un anno a fare campagna tenendo buoni i mercati ventilando l’ipotesi che, anche dopo il voto, Draghi resti a palazzo Chigi, beh, si sbagliano.

Il premier, a differenza degli esponenti della sua maggioranza, è ben consapevole del quadro macroeconomico che condizionerà l’offerta politica (e presto anche la domanda) nei prossimi mesi.

In un intervento a Parigi, all’Ocse, ieri Draghi ha parlato come faceva da banchiere centrale: i prezzi nell’area euro sono aumentati dell’8,1 per cento a maggio rispetto a un anno fa, ma l’inflazione core (al netto di energia e alimentari) è più bassa, in Italia soltanto il 2,9 per cento.

Mentre la disoccupazione nell’area euro resta al 7 per cento, e questo dimostra che “c’è ancora capacità inutilizzata nell’economia”. Dunque, ha spiegato Draghi, «l'aumento dell'inflazione non è del tutto segno di surriscaldamento, ma è in gran parte il risultato di una serie di shock sul versante dell’offerta».

Implicazioni: alzare i tassi e adottare una politica monetaria troppo restrittiva non serve a mitigare gli effetti sui prezzi dovuti agli shock esterni, ma riduce gli effetti della spesa in deficit fatta durante la pandemia e per sostenere la ripresa, rendendo il debito accumulato più pesante e divoratore di risorse preziose tramite spesa per interessi.

Addio al debito buono

Per questo non è più tempo delle distinzioni che Draghi predicava dal Financial Times nel 2020, quelle tra debito buono e debito cattivo (con l’implicazione che in tempo di pandemia quasi tutto il debito era buono). In questo contesto tutto il debito è cattivo, perché pericoloso.

A vedere i mercati di ieri si facevano queste analisi. Primo: lo spread è ripartito, cioè gli investitori iniziano a chiedere un premio al rischio sempre maggiore all’Italia rispetto alla Germania. Ieri è salito del 7,2 per cento, a 216 punti base.

Ma potrebbe arrivare a 300 in meno di un mese, perché la Bce non ha dato segnali chiari di essere pronta a intervenire se gli spread si allargassero troppo nell’area euro: come ha ben capito Draghi nel 2012, con la promessa di fare “whatever it takes” per salvare la moneta unica, la comunicazione è il più efficace e il più economico strumento di politica monetaria. Serve una credibilità che Christine Lagarde ha rapidamente dissipato, fin dalle sue prime, pasticciate, dichiarazioni quasi due anni fa (“Non siamo qui per chiudere gli spread”).

Una prudente gestione da parte del ministero del Tesoro ha permesso di attraversare la pandemia con un debito che aumentava e una spesa per interessi che diminuiva, ma ora siamo nel pericoloso scenario in cui i mercati hanno gli incentivi a scommettere al ribasso sul debito italiano per testare fino a che punto la Bce è disposta a tollerare tassi fuori controllo.

Qualcuno alla fine si brucerà, perché chi scommette contro la banca centrale prima o poi perde, ma la vera vittima sarà la finanza pubblica italiana e tutto il sistema bancario che si è imbottito di Btp e altri titoli di Stato.

Aspettative

Cosa possono fare i partiti in questo contesto? Una cosa sola, che spetta a loro soltanto e non a Draghi, che non è eletto e non sarà candidato. Devono “ancorare” le aspettative degli investitori per quanto riguarda la prossima legislatura. Cioè chiarire che, chiunque vinca le elezioni, qualunque sia l’assetto che emergerà da un voto imprevedibile, l’Italia sarà avviata su un sentiero di crescita sostenibile e più alta che in passato mentre i conti rimarranno sotto controllo.

Nel concreto significa: basta bonus (dai monopattini allo psicologo, tutti per minoranze e senza misurazione degli impatti), niente interventi a pioggia, niente promesse insostenibili per vincere le elezioni, di tagli fiscali che non si possono fare o redistribuzioni sempre possibili ma non a deficit. E poi approvare le riforme previste dal Pnrr.

Ormai scappa da ridere a scrivere l’espressione “fare le riforme” in Italia, abbiamo logorato così tanto la locuzione che almeno per pudore è evaporato l’aggettivo “strutturali”.

Per parafrasare Nanni Moretti, fate delle riforme, anche non strutturali, anche non ambiziose, anche non risolutive, ma fatele subito, senza rinviare come sul catasto o sulle spiagge. Perché il tempo che la Bce e Draghi hanno regalato ai partiti (e ai loro miopi elettori) sta finendo.  

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