Da qualche anno, il direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, e quattro autorevoli editorialisti, Aldo Cazzullo, Paolo Mieli, Angelo Panebianco e Antonio Polito combattono due indefesse battaglie. La prima è quella per una legge elettorale maggioritaria. Però, il loro “maggioritario” preferito non è né quello inglese né quello francese entrambi caratterizzati dall’elezione dei candidati in collegi uninominali, ma un’imprecisata legge elettorale che offra un più o meno cospicuo premio di maggioranza. 

Tale era l’Italicum, ma in quanto leggi proporzionali con premio di maggioranza, che nessuno mai definì maggioritari, si collocherebbero in questa categoria anche la legge Acerbo, utilizzata da Mussolini nel 1924, e la legge truffa del 1953. La seconda battaglia è per un governo eletto dal popolo, uscito dalle urne e non formato in parlamento. A loro si è finalmente aggiunto anche, last but tutt’altro che least, il più recente degli editorialisti: Walter Veltroni (sul Corriere della Sera del 22 maggio).

La sua lancinante domanda è «come garantire all’Italia di avere governi scelti dai cittadini, che durino cinque anni, siano formati da forze omogenee per valori e programmi e che combattano l’avversario in ragione di questi?».

Scelti dai cittadini

La risposta necessariamente comparata è tanto semplice quanto drastica. Da nessuna parte al mondo esistono governi “scelti dai cittadini”. Nelle Repubbliche presidenziali i cittadini eleggono il capo del governo che si confronterà con un congresso/parlamento dove esistono forze disomogenee e si sceglierà i suoi ministri. Veltroni pone l’accento sulla necessità di un governo stabile, ma, come fece più volte rilevare Giovanni Sartori, la stabilità non è affatto garanzia di efficacia dei governi. Anzi, spesso la stabilità finisce per diventare immobilismo, stagnazione, rinuncia a prendere decisioni.

Aggiungo che il governo che vorrebbe Veltroni, sulla scia degli altri editorialisti del Corriere, se fosse l’esito del premio di maggioranza innestato su una legge elettorale, sarebbe anche molto poco rappresentativo delle preferenze e degli interessi dell’elettorato. Potrebbe essere conquistato da un partito del 30 per cento con la conseguenza che il 70 per cento dei votanti sarebbero/si sentirebbero poco rappresentati.

Certo, la Corte costituzionale potrebbe anche sancire che il premio non viene assegnato se il partito più forte non conquista almeno il 40 per cento dei voti espressi, ma allora il partito grande andrebbe alla ricerca di tutti i partitini possibili necessari per superare la soglia, a prescindere da qualsiasi omogeneità programmatica e valoriale. È una brutta storia che possiamo già vedere nella moltiplicazione delle liste e delle listine a sostegno delle candidature a sindaco.

La pur impossibile elezione popolare diretta del governo dovrebbe anche comportare, ma Veltroni non ne fa cenno, che, se quel governo perde la maggioranza in parlamento, si torna subito alle elezioni poiché qualsiasi altra coalizione, pur numericamente possibile, non sarebbe legittimata dal voto.

I precedenti

A sostegno della sua tesi, Veltroni cita, molto impropriamente, Roberto Ruffilli e Piero Calamandrei i quali, senza dubbio alcuno, avrebbero apprezzato governi stabili, ma, altrettanto certamente, si sarebbero opposti a qualsiasi premio di maggioranza. Per Calamandrei vale la sua campagna contro la legge truffa. E il maggioritario al quale si riferiva Ruffilli non prevedeva nessun premio in seggi.

La proposta da citare è quella avanzata il 4 settembre 1946 in assemblea costituente in un ordine del giorno dal repubblicano Tomaso Perassi, docente di diritto internazionale a La Sapienza, e che fu approvata da una ampia maggioranza: «La seconda sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e a evitare le degenerazioni del parlamentarismo».

In Italia non se ne è fatto niente, ma un anno dopo l’entrata in vigore della costituzione italiana, i costituenti tedeschi trovarono proprio il meccanismo stabilizzatore: il voto di sfiducia costruttivo. Il Bundestag elegge a maggioranza assoluta il cancelliere.

Può sfiduciarlo con un voto ugualmente a maggioranza assoluta e sostituirlo con un terzo voto a maggioranza assoluta per un nuovo cancelliere. Se non vi riesce, il cancelliere sconfitto può rimanere in carica, con l’approvazione del presidente della Repubblica, fino a un anno. Nel 1977-78 gli spagnoli, imitando i tedeschi, hanno introdotto nella loro costituzione la mozione di sfiducia (costruttiva). Il presidente del Governo può essere sfiduciato da una maggioranza assoluta dei deputati che automaticamente lo sostituiscono con il primo firmatario della mozione di sfiducia. In questo modo il 2 giugno 2018 è entrato in carica il socialista Pedro Sánchez.

Non è casuale che Germania e Spagna siano i due sistemi politici europei che nel secondo dopoguerra hanno avuto il minor numero di governi e di capi del governo, dunque la più alta stabilità governativa. Il voto o la mozione di sfiducia rispondono all’esigenza, tanto accoratamente espressa da Veltroni, di un governo stabile. Richiedono una modifica costituzionale, sicuramente fattibile, di gran lunga preferibile e più promettente dei confusi e manipolatori dibattiti sulle leggi elettorali. Riuscirebbe persino a acquietare gli altri preoccupatissimi editorialisti del Corriere.

 

© Riproduzione riservata