Il rischio “stagflation”, un rallentamento economico con il contemporaneo aumento dell’inflazione, aleggia sui mercati: molti tratti della congiuntura attuale ricordano infatti gli anni settanta: anche allora l’inflazione era riapparsa dopo un lungo periodo di stabilità dei prezzi, con la fine della convertibilità aurea del dollaro e dei cambi fissi, in un periodo di politiche fiscali fortemente espansive e politiche monetarie accomodanti (oggi per via della pandemia e la crisi energetica; ieri per costruire lo stato sociale e per finanziare la guerra nel Vietnam). In questo contesto, sopravviene uno shock energetico causato da guerra e sanzioni (oggi, l’Ucraina, allora la guerra dello Yom Kippur e la crisi degli ostaggi in Iran).

Allora le banche centrali mantennero i tassi d’interesse troppo bassi troppo a lungo, alimentando il circolo vizioso della spirale prezzi-salari che spinse l’inflazione fino al picco del 15 per cento nel 1980 negli Stati Uniti (e del 21 in Italia), con costi sociali ed economici insostenibili. Per sradicare l’inflazione, l’allora governatore della Fed Paul Volcker dovette alzare i tassi oltre il 19 per cento, provocando così due recessioni nei tre anni successivi. In Europa andò anche peggio.

Questa settimana la Fed ha aumentato i tassi dello 0,25 per cento e il mercato sconta una serie di aumenti fino al 2,7 a fine 2023. Aumenti che dovrebbero essere coerenti con una discesa dell’inflazione dal 7,9 di marzo al 2,4 medio per l’anno prossimo, mantenendo la piena occupazione. Un atterraggio morbido quello ipotizzato dalla Fed, che incontra molto scetticismo.

Anche più morbido quello della Bce: mantiene i tassi negativi e non comincerà ad aumentarli se non dopo aver smesso di acquistare titoli, in autunno. Ciò nonostante prevede l’inflazione in discesa dal 5,9 di febbraio all’1,8 medio nel 2023, con la crescita che rimane sopra trend.

Verso la frenata brusca?

Molti temono che le banche centrali, come negli anni Settanta, stiano sottostimando la dinamica dell’inflazione e rischino così di intervenire troppo tardi, dovendo, a quel punto, imporre all’economia una frenata così brusca da provocare una recessione.  Lo scenario delle banche centrali non è credibile, ma il timore di una recessione è eccessivo.

La guerra in Ucraina ha solo enfatizzato rischi che esistevano già. Fatti salvi gli scenari catastrofici, conflitto in Ucraina e isolamento della Russia, non sono per sé stessi la principale fonte del rischio stagflation. Difficile che le forniture di energia all’Europa si fermino, perché per la Russia sono anche più importanti che per noi: sono l’ultima fonte di entrate per evitare il collasso totale dell’economia.

Per l’economia del mondo la Russia ha un peso limitato avendo la metà del Pil della California. Il default sul debito in valuta estera è poco probabile perché non è nell’interesse né della Russia (che altrimenti arretrerebbe all’economia del baratto) né dei governi che la sanzionano (il pagamento delle cedole drena riserve valutarie russe).

Infine l’impennata del prezzo di greggio e gas dallo scoppio della guerra è stato in gran parte di natura finanziaria dovuta all’acquisto di derivati per prendere posizione sul rischio embargo delle forniture russe.

Niente shock

Il caro energia trova spiegazione principalmente nel taglio degli investimenti per la ricerca, sviluppo ed estrazione delle energie fossili a seguito degli ambiziosi obiettivi del Green new deal, senza che sia stato formulato un piano realistico di investimenti per raggiungerli e senza tener conto dei relativi costi.

Anche se è probabile che gli obiettivi del green deal saranno di fatto ridimensionati, la transizione energetica implica che i prezzi dell’energia sono destinati a rimanere elevati; ma il costo dell’energia è una tassa per chi la usa che andrà a erodere la crescita prevista.

Non credo però ci sarà però una replica dello shock petrolifero degli anni Settanta: se rapportato all’indice generale dei prezzi, quello del greggio è oggi vicino al livello medio di metà anni ottanta; l’energia richiesta per unità di prodotto è oggi una frazione di quella di allora; l’innovazione ha aumentato l’efficienza dal lato dell’offerta (come il fracking per lo shale); e la ricerca dell’indipendenza energetica dalla Russia accelererà lo sviluppo delle fonti alternative.

Non c’è il rischio che l’aumento dei tassi inneschi una crisi finanziaria con ondate di fallimenti perché le imprese sono oggi molto redditizie e dotate di liquidità bastante a fronteggiare il maggior costo del credito: l’anno prossimo, le imprese americane avranno il tasso di indebitamento più basso degli ultimi 15; il private equity non ha mai avuto così tante risorse a disposizione; e le banche sono ovunque ben patrimonializzate. In più, in conseguenza del Covid, anche le famiglie hanno risparmi in eccesso rispetto alla media storica e questo attenuerà l’impatto del caro energia sui consumi privati.

Il rischio prezzi-salari

Improbabile anche una spirale inflazione-salari anni settanta. Negli Stati Uniti c’è la piena occupazione e i salari crescono, ma i sindacati hanno perso gran parte del loro potere negoziale e c’è oggi una grande flessibilità nel mercato del lavoro.

In Europa ci sono ancora molte risorse inutilizzate e il sistema di contrattazione collettiva allenta il legame tra salari e costo della vita. Ma per quanto sia difficile che si inneschi il circolo vizioso dell’inflazione da costi, è altamente improbabile che le banche centrali riescano a frenare l’inflazione senza pagare un costo in termini di crescita e posti di lavoro.

L’elemento più importante è però la Cina. La stabilità dei prezzi nell’ultimo ventennio scorso, più che alla politica monetaria, deve dire grazie all’integrazione dell’economica e finanziaria della Cina nell’economia globale, che ha permesso di produrre beni a basso costo con un livello tecnologico crescente, grazie all’immissione sul mercato di una grande forza lavoro giovane, qualificata, con salari inferiori rispetto all’Occidente ma con una produttività elevata.

Il ruolo della Cina come fattore di stabilità dei prezzi nel mondo è destinato a dissolversi a causa del rapido invecchiamento della popolazione cinese, l’aumento di salari e domanda di welfare, e la conseguente riduzione del saggio di risparmio.

C’è poi la crisi immobiliare, che coinvolge un quarto dell’economia cinese e ha provocato il crollo dei prezzi degli immobili e grandi insolvenze, a pesare sulla crescita; e la politica dei contagi zero per eliminare il Covid è inefficace (vedi Hong Kong) ma ha costi elevati in termini di domanda interna.

È quindi sempre più difficile sposare lo scenario delle banche centrali di un ritorno dell’inflazione stabilmente sotto al 2 per cento, perché energia e Cina saranno un elemento strutturale di maggiore inflazione: difficile però stimare a quale livello si stabilizzerà.

Probabile, dunque, che i tassi salgano più di quanto si preveda oggi; e pertanto irrealistico pensare di stabilizzare la dinamica dei prezzi senza costi in termini di crescita e occupazione.

Tuttavia, non ci sono le condizione per una stagflation anni settanta con il rischio di un ritardato, quanto eccessivo, aumento dei tassi che porti alla recessione.

Chi più rischia in questo nuovo scenario è l’Italia perché l’ipotesi prevalente che una crescita elevata, finanziata dal Pnrr, renda sostenibile il nostro debito pubblico va decisamente rivista. E in questo caso la Bce non potrebbe venire in nostro soccorso come ha fatto più volte negli ultimi 10 anni, avendo deciso di chiudere già entro la fine di quest’anno il lungo esperimento coi tassi negativi e gli acquisti straordinari di titoli. E col debito italiano in crisi, anche la stabilità dell’euro sarebbe a rischio.

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