Che dopo l’aborto tocchi al matrimonio tra persone dello stesso sesso è nell’aria da un po’. Nessuno dubita che la Corte suprema americana, con la sua maggioranza di sei a tre tutta conservatrice, non perderà l’occasione di rovesciare i propri procedenti sul same-sex marriage così come ha fatto qualche settimana fa con l’aborto.

La situazione è la stessa. Come l’interruzione di gravidanza, infatti, anche il matrimonio gay deve la sua esistenza ad una precedente decisione della Corte, anzi a due: United States v. Windsor, del 2013, e Obergefell v. Hodges, del 2015.

Con la prima, la Corte dichiarava incostituzionale una legge federale del ’96 per cui matrimonio era solo quello tra uomo e donna; con la seconda, si chiariva che nessuno dei 50 Stati potesse negare riconoscimento ai matrimoni omosessuali.

Come già con la sua decisione del 1973 in materia di aborto, ora la Corte potrebbe smentire i suoi precedenti, con l’effetto di far tornare in vigore la norma per cui matrimonio è solo quello tra sessi diversi e di far venir meno l’obbligo costituzionale per gli Stati membri di riconoscere il same-sax marriage.

Ci ritroveremo a leggere nella decisione presa oggi a maggioranza quello che ieri leggevamo nelle opinioni dissenzienti dei giudici di minoranza.

Che, cioè, di matrimonio omosessuale non c’è traccia in Costituzione, che non c’è alcun obbligo costituzionale, che dev’essere il legislatore a decidere sul punto, e che probabilmente i cinquanta legislatori dei cinquanta Stati possono decidere diversamente, e che aveva ragione nel 2015 il più conservatore dei giudici: se fosse la Corte a decidere al posto del parlamento, sarebbe un «Putsch giudiziario», pieno di arroganza. Anzi, proprio di hubris, l’aveva chiamata il giudice Antonin Scalia.

E perché tutto è così prevedibile, il parlamento sta provando a spuntare l’arma in mano alla Corte. Il 19 luglio la Camera dei Rappresentanti ha approvato il Respect for Marriage Act, che traduce in previsione legislativa quello che la Corte aveva detto nel 2013 e nel 2015, e che ora è a rischio. Il disegno di legge è stato approvato con un’ampia maggioranza, a tratti anche trasversale: ai democratici in blocco, si sono uniti 47 repubblicani.

Ora il testo è passato al Senato, e lì forse le cose sono più complicate. I democratici ce la farebbero anche a far passare il testo se si andasse al voto, ma il problema è proprio questo: andare al voto.

Al Senato, infatti, non si mette un testo al voto se il dibattito non si è esaurito spontaneamente, senza dunque la possibilità di interrompere gli interventi in aula.

Una porta aperta all’ostruzionismo parlamentare: basta che si porti il dibattito allo stremo, con interventi continui, senza arrivare mai al voto, e così il provvedimento muore.

Evitare il peggio

L’unico modo per uscirne è approvare una mozione di chiusura del dibattito e passaggio al voto, che però richiede una maggioranza di 60 senatori su 100. Maggioranza che i democratici non hanno.

Perché il Respect for Marriage Act arrivi al voto anche al Senato (ed eventualmente lo superi), i democratici hanno bisogno che qualche senatore repubblicano stia dalla loro. Cosa difficile, ma non del tutto impossibile: qualche giorno fa, la Cnn ha reso noto che almeno cinque senatori repubblicani sarebbero favorevoli al passaggio dell’Act.

Se l’operazione riuscisse, il fondamento del diritto al same-sex marriage non starebbe più nelle decisioni del 2013 e del 2015 della Corte suprema, ma in una decisione politica formalizzata in una legge, e i giudici non potrebbero far saltare tutto semplicemente smentendo i due precedenti.

Una corsa contro il tempo, insomma, dopo che il giudice più conservatore del collegio,Clarence Thomas, in una opinion che accompagna la sentenza della Corte sull’aborto, l’ha detto chiaramente che, alla prossima occasione, bisognerà riconsiderare la decisione del 2015 sul same-sex marriage. E, visto che ci siamo, pure le decisioni in materia di contraccezione. Ma quella è un’altra storia, e arriverà anche il suo turno.

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