La strage in Australia, se la retorica incendiaria genera violenza

Non si può certo stabilire una diretta connessione fra l’attentato antisemita di Bondi Beach, che, al momento in cui sto scrivendo, è accertato aver causato 12 vittime e 29 feriti di identità ebraica durante la cerimonia di accensione dei lumi di Hanukkà, con l’impressionante campagna d’odio antiebraico suscitata dalla guerra scatenata da Hamas il 7 ottobre 2023. Odio presto estesosi da Israele alle comunità ebraiche della diaspora a cui sono state continuamente chieste prese di distanza che tanto hanno richiamato alla memoria l’infame «Davide discolpati!» di medievale memoria. Tra l’altro, dimostrando un’ignoranza assoluta del dibattito interno all’ebraismo diasporico anche qui in Italia, che conta la presenza della più antica diaspora occidentale. Ancora una volta, abbiamo amaramente constatato che quella ebraica è l’unica identità al mondo in grado di smuovere fino alle lacrime e alle peggiori iperboli la coscienza collettiva occidentale, del tutto silente, invece, di fronte a massacri ben più ampi del già tragico scenario di Gaza. Strage alla festa ebraica a Sydney: «attacco mirato», 12 morti a Bondi Beach Il caso australiano Se, dicevamo, una connessione diretta fra questi toni e l’attentato di Sydney non può essere stabilita, l’Australia, col suo aumento record di attacchi e retorica antisemita dal 7 ottobre in avanti, è un caso scuola di come l’uso dell’antisionismo-antisemitismo come strumento di acquisizione del consenso, finisca col legittimare una propaganda organizzata di gruppi estremisti che non hanno difficoltà a trovare mani disposte ad armarsi in nome di chissà quale piano di redenzione universale capace di dare uno scopo ad esistenze spesso relegate ai margini delle nostre società. Uno schema, purtroppo, già visto nello scenario post 11 settembre, dove la legittimazione dell’islamofobia ha portato alle stesse conclusioni. Destra e sinistra, a parti invertite, si sono comportate esattamente allo stesso modo. Proprio quell’esperienza così recente, a dire il vero mai conclusa (fra luglio e ottobre 25 moschee prese di mira solo nel Regno Unito), avrebbe dovuto insegnare perlomeno ai vertici politici quale circolo vizioso si inneschi giocando all’apprendista stregone con pulsioni sociali poi assai difficili da contenere. Alla terribile serie di attentati messi in campo dall’estremismo islamista, sono poi seguiti quelli dei movimenti suprematisti occidentali, che, a volte ce lo si scorda, sono stati i primi ad utilizzare la strategia decentralizzata delle cellule ideologiche come mezzi di reclutamento sparsi per il territorio a cui si è poi ispirata la galassia jihadista, capace di implementare la strategia attraverso un sapientissimo uso dei moderni mezzi di comunicazione e del concetto di guerra ibrida. Si va dalle videocassette recapitate nelle sedi dei media occidentali dall’Al Qaeda di Osama bin Laden, che mise il sacro diritto all’informazione occidentale in contraddizione con se stesso costringendo le testate al dilemma se abdicare all’uno o favorire la propaganda criminale, fino agli accuratissimi video elaborati dall’Isis in perfetto stile holliwoodiano. Il Pd e l’insopportabile ambiguità sull’antisemitismo Estremismo chiama estremismo Insomma, estremismo ha chiamato estremismo, secondo lo schema di polarizzazione imperante che sta caratterizzando le nostre democrazie. Sempre nel momento in cui sto scrivendo questo articolo, non sono noti gli attentatori né la loro matrice. La stessa modalità può far pensare a cellule dormienti iscritte nella galassia jihadista o a degli Andreas Brevik di turno. Chiaro che le indiscrezioni sulla nazionalità pakistana degli attentatori fanno pensare alla prima ipotesi, ma, fino a conferme o rivendicazioni ufficiali, noi restiamo prudenti, come ci ha insegnato Oklahoma City 1995. Sicuro è che siamo davanti alla stessa maionese impazzita alimentata dai toni del dibattito sociale e politico. Pronostico? Non cambierà nulla. Troppo duro per la politica progressista ammettere di aver cavalcato l’antisionismo per calcoli elettorali. Troppo duro per l’intellighenzia di sinistra ammettere di aver aderito in maniera acritica, per antiche battaglie ideologiche o per nuovo senso di appartenenza, ad una narrazione del conflitto che ha assunto come unica fonte una precisa parte. Troppo duro per il mondo femminista ammettere di aver rinunciato al proprio impulso universalistico, persino rimuovendo le raccapriccianti immagini delle donne israeliane con i pantaloni imbrattati di sangue, in nome di un’intersezionalità concepita in modo astratto. I tempi della teshuvà, questa pratica di riconciliazione che l’Occidente chiama giustizia riparativa, non sono ancora venuti. Tutto fa pensare che ci vorrà una generazione almeno. Cresce l’antisemitismo: in Italia più attacchi, ma c’è chi fa peggio