C’è troppa agitazione, poco coordinamento, eccessiva smania di fare piani che restano su carta. Ci si dovrebbe concentrare sulle strategie. È saggio schierare oggi dei contingenti in Ucraina o esiste un modo diverso di combinare deterrenza e distensione?
L’isteria sembra essere il sentimento prevalente nelle classi politiche europee. Questa reazione è in parte comprensibile: Trump ha da un lato gettato nel caos le relazioni commerciali con minacce di dazi ed escalation protezionistica, dall’altro la Casa Bianca sembra giunta ad un redde rationem da tempo atteso sulla difesa dell’Europa.
Tutto questo si svolge all’interno di un ciclo politico dove la vecchia classe politica europeista è incalzata, o è già stata sostituita, da nuovi protagonisti di estrazione nazional-populista. Un elemento che acuisce le divisioni e l’instabilità politica in seno al continente.
Reazione emotiva
L’emotività e l’impulsività però non sono buone consigliere negli affari internazionali. Di qui una serie di passi falsi inanellati dalla politica europea. Dapprima la ricerca di una soluzione alla guerra in Ucraina dopo l’avvento di Trump concentrata nelle mani di pochi paesi, di cui costituiscono parte importante paesi extra Ue come Regno Unito e Turchia.
Un modo di procedere, avallato in particolare da Macron e Von Der Leyen, che affievolisce la già sottile legittimità politica europea. In secondo luogo, c’è stato l’annuncio di invio di forze di peace-keeping da parte di Francia, Regno Unito e una presunta coalizione di volenterosi.
Ma questa idea sconta numerosi problemi: propone truppe di peace-keeping in una situazione in cui ancora non c’è un accordo di pace; la coalizione di paesi pronti ad inviare truppe è ristretta e l’ampiezza del territorio ucraino è notevole; la volontà di Putin non sembra essere considerata in questa fase da alcuni paesi europei, eppure è centrale nel processo di negoziazione, e appare difficile che l’autocrate russo accetti la presenza di soli militari europei come garanzia di sicurezza in un accordo di pace. Se messa in pratica subito, una soluzione del genere equivarrebbe ad una dichiarazione di guerra a Mosca.
Considerato che nessun paese europeo sembra pronto ad andare in guerra per Kiev, il piano sembra destinato a rimanere al massimo un desiderata per il futuro quando Trump e Putin discuteranno la pace.
C’è stata poi l’idea di una tregua di un mese, sempre di matrice anglo-francese, ma sia l’Ucraina che la Russia si sono mosse sul piano diplomatico soltanto quando questa proposta è stata fatta dagli Usa. E, di conseguenza, nessun leader europeo è stato invitato ai tavoli di Gedda. Un segno che le carte sono nelle mani degli americani e che gli stessi Zelensky e Putin soltanto con loro vogliono discutere i temi fondamentali.
Reazione ai dazi
Quando ci spostiamo sulla politica commerciale le cose non sembrano andare meglio. La reazione a Trump avviene sui dazi a merci materiali e non ha fatto altro che dare luogo ad un ulteriore inasprimento della Casa Bianca verso i prodotti europei.
Se guardiamo ai prodotti materiali, l’Ue ha soltanto da perdere in una guerra commerciale con gli Usa poiché il surplus della bilancia commerciale in materia supera i 200 miliardi di euro. Se proprio si volesse andare ad una escalation si dovrebbero allora colpire i servizi, dove invece prevalgono le aziende americane.
Ma anche su questo tema non si vede ancora una strategia, un metodo per provare a portare Trump al tavolo e trovare un grande accordo su tutti gli scambi transatlantici.
Persino sul piano di riarmo si poteva fare diversamente, a partire dal nome del programma: perché spaventare un’opinione pubblica in molti paesi già restia all’aumento della spesa militare con la sigla ReArm Eu? Perché mettere in mezzo i fondi di coesione europei come fonte di finanziamento? Così si dà il dritto alle forze pacifiste di far passare l’idea che si taglia il welfare per finanziare le armi.
C’è il rischio di un boomerang politico grave che favorisca l’ascesa di chi vede con il fumo negli occhi una politica di deterrenza. Si doveva probabilmente trovare un modo di finanziamento più convincente e una comunicazione capace di preparare maggiormente i cittadini europei alla necessità di aumentare la spesa in difesa.
Tutti questi elementi lasciano molto perplessi sul ruolo delle classi politiche europee in questo scenario. C’è troppa agitazione, poco coordinamento, eccessiva smania di fare piani che restano su carta. Ci si dovrebbe, invece, concentrare sulle strategie.
Qual è, per esempio, il compromesso minimo accettabile nell’eventuale armistizio tra Russia e Ucraina da parte dei paesi europei? Come interfacciarsi con Trump e Putin in modo realistico? È saggio schierare oggi dei contingenti in Ucraina o esiste un modo diverso di combinare deterrenza e distensione?
Infine, ci si può proteggere sul piano nucleare in Europa senza l’apporto degli americani, oppure è irrealistico poiché la Russia che vanta armi tattiche nucleari efficaci e un arsenale di ampie proporzioni rispetto a quello anglo-francese? Fino a quando i leader Ue non risponderanno a queste domande si continuerà con vertici che vanno a vuoto, divisioni e promesse mancate.
È il caso dell’Italia. Meloni non è in grado oggi di dare l’assenso dell’Italia a missioni militari in Ucraina sia perché la Lega è contraria sia perché gran parte dell’opposizione ha scelto una postura pacifista. Così, per paura di perdere consensi, la premier preferisce attendere la soluzione orchestrata da Trump e frena sull’invio di soldati.
In tutto questo c’è sicuramente una debolezza italiana, che rischia di portare il paese ad una diminuzione della sua influenza internazionale in caso di un mancato riarmo e di una politica estera debole, ma ci sono anche errori dettati dalla frenesia di gran parte della classe politica europea.
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