La risposta a Trump, che alza i dazi sui prodotti Ue, secondo alcuni, sta nel tassare le big tech, che sono prevalentemente Usa. Ma messa in questi termini la questione degrada a vendetta, mentre essa va semplicemente messa nel suo secolo, il XXI.

La tassazione internazionale – varata, di fatto, solo nel Secondo dopoguerra – gira intorno a questi principi: ognuno tassa le imprese basate nel proprio paese, sia che producano redditi in loco sia che li producano tanto in loco che all’estero (world wide principle).

Il paese estero ospitante, però, può tassarle anch’esso se le attività in questione sono realizzate mediante una stabile organizzazione locale. Insomma se un’impresa Usa opera in Italia attraverso una “base materiale fissa” le tasse, per i redditi ivi prodotti, le paga in Italia; se la base materiale fissa non c’è le paga solo negli Usa.

Questo sistema aveva un suo equilibrio quando la Ford o la Esso producevano negli Usa e vendevano anche in Italia. Perché all’impresa americana occorreva avere in Italia spazi espositivi, depositi di materiali di ricambio o pure e semplici cisterne che consentivano la vendita in Italia di un prodotto elaborato all’estero.

Le imposte pagate in Italia, peraltro, davano luogo ad un credito d’imposta negli Usa per far si che la tassazione del medesimo reddito non fosse duplicata (foreign tax credit).

Ovvio che vale anche il contrario: se la Ferrari vende auto in Usa attraverso show room ed officine americane di assistenza paga, sui redditi ivi prodotti, le imposte Usa ed ha diritto ad un corrispondente credito d’imposta in Italia.

Questo equilibrio è venuto meno con l’avvento di internet, le vendite sulla rete ed i servizi digitali (programmi software, diagnosi cliniche, servizi finanziari, prodotti cinematografici e televisivi, intermediazioni, etc.). Per svolgere questo tipo di attività occorre certo una sede: ma quella localizzata in California od in Irlanda può ben servire il resto del mondo senza necessità di aprire un capannone a Cernusco sul Naviglio.

Con la conseguenza che, in assenza di “base materiale fissa”, le tasse non si pagano affatto in Italia ma solo negli Usa. Viene meno, cioè, il rapporto fra mercato pagante (l’Italia) ed il luogo in cui i redditi pur ivi prodotti vengono tassati (gli Usa).

Questa situazione – che si articola in vari modi ma vale praticamente per tutte le attività svolte da big tech – è frutto di un sistema palesemente invecchiato e divenuto drammaticamente inadeguato a far fronte all’evoluzione dei modi di produzione della ricchezza. Occorre semplicemente prendere atto che l’impostazione di ottanta anni fa non coglie più quel punto d’equilibrio che la ha a lungo caratterizzata: la tassazione del reddito dove esso è prodotto.

La tassazione delle big tech, quindi, non c’entra un fico secco con i dazi e non rappresenta alcuna forma di vendetta degli europei contro gli americani. Sennonché affrontare questo problema implica mettere mano alle convenzioni contro le doppie imposizioni.

Queste sono trattati bilaterali ed ognuno ha il suo. Consegue che ciascun paese Ue avrebbe dovuto rinegoziare il proprio trattato con gli Usa nell’intesa che questi ultimi ben avrebbero potuto fare orecchie da mercante. Ed ecco allora che, per metterci una pezza, la Commissione Ue dell’epoca (2017) propone l’introduzione della Digital Service Tax (Dst). La necessaria (ed auspicata) approvazione all’unanimità non arrivò mai: ma Italia, Francia, Spagna ed anche Regno Unito decisero di farla propria lo stesso e la imposero, alle sole grandi imprese (oltre 750 milioni di fatturato,) sui ricavi da specifici servizi digitali. Insomma: una sorta di imposta sui consumi (di dubbia legittimità perché potenzialmente duplicatrice dell’Iva).

Con risultati, perdipiù, modesti in termini di gettito (per l’Italia meno di 400 milioni annui; per la Francia meno di 600). Finché nel 2021 si arriva ad un accordo in sede Ocse per tassare le big tech (Pillar 1) con espressa sospensione della Dst. Fatto è che il Pillar 1 mai è stato approvato dagli USA ed è rimasto, nei fatti e per l’ennesima volta, lettera morta.

Si torna così al punto di partenza. Le big tech realizzano profitti in numerosi mercati – primo fra tutti la Ue – ma non vi pagano le imposte sul profitto realizzato. La rimozione di questa inaccettabile situazione non ha alcunché di ritorsivo (così come la cancellazione della Dst sarebbe un atto di pura onestà intellettuale).

La via maestra è, dunque, la rinegoziazione dei trattati contro le doppie imposizioni stipulati dai singoli paesi Ue con gli Usa volta ad eliminare l’esistenza della “base materiale fissa” come presupposto della tassazione nel paese/mercato. Rinegoziazione che se avvenisse sotto il coordinamento della Commissione europea avrebbe, però, più serie probabilità di successo che se affidata alle singole amministrazioni nazionali.

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