I dati sull’occupazione diffusi a inizio agosto sono stati unanimemente salutati come un’ottima notizia, trattandosi della più alta percentuale di lavoratori occupati dal 1977. È certo un dato positivo, che dovrebbe anzitutto sconfessare il luogo comune secondo cui non si trovano lavoratori perché mancherebbe la voglia di lavorare, magari per colpa del reddito di cittadinanza.

Un tasso di occupazione record, accompagnato dal calo dei lavoratori inattivi, non è compatibile con questa narrazione. Sarebbe sbagliato, però, adagiarsi sugli allori dei tassi in crescita.

Le politiche del lavoro negli ultimi decenni, in Italia e in Europa, sono state segnate da una “ossessione quantitativa”, principalmente orientata ad aumentare il numero dei lavoratori occupati. Scarsa è stata, invece, l’attenzione rivolta alla qualità del lavoro, come se un “lavoro purchessia” andasse prioritizzato rispetto alla considerazione delle condizioni lavorative.

Ad esempio, guardando più da vicino i dati sull’occupazione, si considerano “occupate” le persone che nella settimana precedente abbiano svolto almeno un’ora di lavoro retribuito. Non importa che questo lavoro sia subordinato o autonomo, a tempo determinato o indeterminato, part-time o a tempo pieno; non importa nemmeno che il lavoro sia stato prestato tramite «forme di lavoro irregolare», quindi in nero.

Qualità o quantità

È evidente, quindi, che questi dati non dicano quasi nulla sulla qualità dei posti di lavoro creati. Non indicano se ai lavoratori occupati venga corrisposto un salario che consenta di vivere del proprio lavoro né se l’ambiente di lavoro sia insicuro o rischioso per la salute. Non rivelano se vi sia accesso alla sindacalizzazione e alle tutele dei contratti collettivi né se i rapporti di lavoro “autonomi” siano genuini o nascondano un lavoro dipendente; non dicono nulla nemmeno sull’esistenza di un contratto regolare.

I dati parlano, invece, di una crescita dell’occupazione nell’ultimo anno sostenuta soprattutto da contratti a termine. Questo elemento non è secondario. I lavori a termine, specie di corta durata, sono spesso i più piagati dal fenomeno del “lavoro povero”, con retribuzioni che non consentono di vivere dignitosamente. In Italia, secondo dati diffusi a maggio di quest’anno, il 12 per cento dei lavoratori svolgono “lavoro povero”, una percentuale tra le peggiori in Europa.

I contratti di breve durata, la forzatura di dover lavorare molte meno ore di quanto si vorrebbe (è il cosiddetto «part-time involontario») e il lavoro sommerso sono tra le principali cause della povertà lavorativa. Se una percentuale così alta di lavoratori è alla mercé del lavoro povero, c’è ben poco da esultare quando i dati sull’occupazione segnano un record.

C’è invece da riflettere su come correggere questi fenomeni. Dovrebbe essere questo l’obiettivo principale delle forze politiche che si dicono progressiste. Il lavoro povero, precario, insicuro e irregolare tiene innanzitutto in vita imprese inefficienti che fanno concorrenza sleale agli operatori virtuosi. Pesa, inoltre, sul resto della società: basti pensare che circa il 20 per cento dei percettori di reddito di cittadinanza lavora in maniera regolare, soprattutto tramite contratti a termine e a tempo parziale. Si tratta quindi di persone costrette a percepire un sussidio pubblico perché il proprio lavoro non consente di soddisfare esigenze minime di vita.

Lavoro e Costituzione

Soprattutto: accontentarsi del “lavoro purchessia” è quanto di più distante dal nostro modello costituzionale. Troppo spesso si brandisce la formula «Repubblica […] fondata sul lavoro» come una clava nei confronti di chi non possa o voglia accettare di lavorare in cambio di salari da fame, in ambienti rischiosi e condizioni precarie. Si finge di ignorare che i Costituenti non intendessero affatto obbligarci al lavoro ad ogni costo. Il modello costituzionale impone che il lavoro sia tutelato «in tutte le sue forme e applicazioni» e prevede che nessun lavoratore sia povero.

La povertà lavorativa è radicalmente incompatibile con il precetto costituzionale che ai lavoratori venga corrisposta una retribuzione che assicuri a questi e alle loro famiglie “un’esistenza libera e dignitosa”. È urgente che le forze progressiste mettano al centro della propria agenda un piano per il lavoro dignitoso.

Non si tratta soltanto di istituire il salario minimo legale; si tratta di combattere la precarietà contrastando più efficacemente il finto lavoro autonomo e i contratti di corta durata e di orario scarso e variabile, smettendo di proclamare che il lavoro a termine sia il trampolino verso lavori più stabili: non è così se non prevedendo che il termine sia giustificato da esigenze temporanee. La celebrazione del “lavoro purchessia”, insomma, va abbandonata. Bisogna chiedersi, invece, non quanto, ma quale lavoro vogliamo.

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