Chissà se i consiglieri di amministrazione di Tim conoscono l’Infinito di Leopardi? Troverebbero consonanza con i senTimenti espressi nel verso finale, “E il naufragar m’è dolce in questo mare”. Le indiscrezioni circa il progetto di fusione delle attività italiane di Vodafone e Iliad confermano che il settore delle comunicazioni ha ricavi e margini in declino in tutta Europa per via della grande frammentazione degli operatori, elevata concorrenza, e saturazione del mercato di cellulari e connessioni internet; e dell’omogeneità dell’offerta degli operatori, che si possono far concorrenza solo con il prezzo.

Problemi ingigantiti in Italia dalla bassa crescita dei redditi e consumi personali: infatti Vodafone vaglia la possibilità di un’aggregazione proprio in Italia, il mercato più debole e meno redditizio tra tutti quelli in cui opera.

Data la situazione e le prospettive del settore, aggregazioni, scissioni e fusioni nelle comunicazioni sono la strada obbligata per mantenere la competitività. La logica della ventilata operazione Vodafone-Iliad è la stessa dell’ormai inevitabile scissione della rete di Tim per la creazione della società unica attraverso la fusione con OpenFiber: tagliare i costi, aumentare la capacità finanziaria per sostenere gli investimenti, ridurre la concorrenza, né sarebbe la prima aggregazione di infrastrutture nel settore visto che tutte le società telefoniche hanno già aggregato le loro reti di trasmissione nel mobile in un duopolio: Tim e Vodafone in InWit; WindTre in Cellnex con le reti in altri paesi.

Nella nuova società della rete, che da monopolio regolamento avrà flussi di cassa stabili, Tim conferirà anche l’eccesso di debito eccessivo e gli esuberi superando così l’annoso problema che grava sul suo conto economico.

Ciononostante, non è chiaro se la scissione della rete migliorerà le prospettive di Tim, perché rimarrà una società che offre servizi omogenei, in un mercato a bassa crescita, e con due concorrenti, Vodafone e Iliad, che potrebbero rafforzarsi fondendosi.  

Le alternative per Tim

Una strada anche per Tim potrebbe essere la fusione: si creerebbe un duopolio in Italia, che però è sufficiente ad assicurare la concorrenza. Un’altra strada sarebbe la ricerca di un vantaggio competitivo nel 5G, una tecnologia dalle applicazioni potenzialmente dirompenti: dalle smart city all’automazione nei trasporti, dall’uso dell’intelligenza artificiale nella sanità all’automazione dei sistemi produttivi. Ma per farlo servirebbero investimenti massicci con risorse che Tim non ha poiché la scissione della rete non genererà cassa: ma potrebbe acquisirle vendendo le attività in Brasile, che non hanno sinergie con l’Italia.

Nulla è però dato a sapere perché non si sa chi sarà alla guida, né se sarà capace di gestire con continuità una ristrutturazione necessariamente lunga e complessa.

Kkr è un fondo che ha le risorse finanziarie per operazioni di questa dimensione e portata, come è implicito nella sua offerta superiore del 60 per cento al prezzo di mercato in quel momento.

Un’offerta che era chiaramente un invito a trattare l’uscita di Vivendi che con il 24 per cento ha la maggioranza relativa di Tim. Ma invece di accelerare la due diligence richiesta da Kkr per spingere il fondo a finalizzare l’offerta, possibilmente migliorarla, incassare, uscire e limitare le perdite fin qui accumulate, Vivendi appoggia l’incomprensibile decisione di non decidere sull’autorizzazione alla due diligence richiesta da Kkr, rinviandola sine die, insieme all’offerta. E preferisce far da sé la stessa identica operazione di Kkr, nominando un nuovo amministratore delegato che in pochi mesi dovrebbe fare quello che per anni Tim con Vivendi al comando non è riuscita a fare.

Una strategia tesa a disinnescare l’offerta di Kkr. Del futuro di Tim, o come si intenda creare il valore che è implicito nell’offerta del fondo, non si parla.

Se la strategia di Vivendi è indecifrabile, ancora di più lo è il comportamento dei consiglieri indipendenti, apparentemente allineati nella tattica dilatoria nei confronti di Kkr: per chi dovrebbe tutelare tutti gli investitori è difficile comprendere come si possa preferire la continua erosione del valore della società a guida Vivendi, per non voler cercare di concretizzare un’offerta a un prezzo più elevato di quello in Borsa.

Le solite argomentazioni, no allo spezzatino e no alla svendita, non valgono in questo caso perché entrambi i piani di Vivendi e Kkr, tutti e due stranieri, prevedono la scissione.

Così il mercato ha cominciato a percepire la solita palude italiana e il titolo Tim ha già perso il 20 per cento rispetto all’offerta di Kkr; ma anche a questi prezzi vale circa 15 volte gli utili attesi per quest’anno, a premio rispetto alle 11,5 volte in medie delle telco europee, segno che se l’offerta del fondo svanisse, il titolo potrebbe scendere ancora parecchio. Evidentemente, come a Leopardi, ai consiglieri di Tim la sensazione del naufragio è dolce.

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