Com’era facile prevedere, la conclusione del braccio di ferro parlamentare tra Renzi e Conte ha lasciato sul terreno più sconfitti che vincitori. E fra questi, quello che ne è uscito peggio – come spesso capita quando ci si trova in mezzo a due litiganti – è forse, per il momento, il centrodestra.

Se infatti il presidente del Consiglio è riuscito a portare a casa una pur raffazzonata e molto relativa maggioranza e il suo sfidante ha ritrovato una centralità mediatica e un ruolo di guastatore che potrebbe tornargli utile in futuro, soprattutto nel lavoro delle Commissioni, a quella che sinora appariva come l’unica opposizione non è rimasto in mano niente. Anzi: ha perso qualche pezzo e rischia di vedersene sfilare altri nelle prossime settimane e si è trovata costretta a ricorrere al consueto e inefficace rito delle implorazioni a Mattarella perché le tolga le castagne dal fuoco. Cosa che l’inquilino del Colle si guarderà bene dal fare.

Scenario favorevole

Il dato è paradossale, visto che di rado nell’ultimo decennio lo scenario si era presentato in termini così favorevoli alla coalizione guidata da Salvini: un governo nemico indebolito e diviso su molti temi, varie categorie sociali impoverite dalla crisi pandemica e irritate nei confronti dell’esecutivo, un’opinione pubblica sbalordita di fronte allo spettacolo della caccia al transfuga nei corridoi del parlamento, sondaggi che certificano un forte vantaggio nel caso in cui si andasse alle urne oggi. Tutti elementi destinati a portare acqua al mulino di quella retorica populista che vale molti voti e che il M5s inserito nell’establishment non può più usare, e di cui la Lega si era appropriata in esclusiva fino a un anno fa. Eppure, di fronte a questa ampia finestra di opportunità il centrodestra, invece di cercare la spallata, si è ritratto, rinchiudendosi in un immobilismo in cui la richiesta di nuove elezioni fa la parte della foglia di fico destinata a coprire una strutturale debolezza.

In ordine sparso

Le ragioni dell’impasse sono molteplici e rimandano al modo in cui l’alleanza è venuta a configurarsi dal 2018 in poi. Il responso elettorale di quell’anno ha sconvolto la logica gerarchica su cui l’aggregazione era stata concepita: niente più Forza Italia guida e cerniera ma una Lega in forte ascesa, tanto da permettersi di accettare, con uno scatto di autonomia, il patto di governo con i Cinque stelle, allora per certi versi più affini ai leghisti di quanto non lo fossero i berlusconiani. Al coacervo di diffidenze, gelosie e desideri di vendetta che quello strappo provocò fra i moderati si è poi aggiunto lo smottamento degli elettorati prima di FI e poi della stessa Lega verso Fratelli d’Italia, la cui leader, giocando a sponda alterna fra radicalità sovranista e conservatorismo, ha acquisito un ruolo di crescente centralità. Ciò ha fatto ancor più di prima dei tre alleati altrettanti avversari, che dietro la facciata delle dichiarazioni di compattezza e le trovate a effetto sul “gabinetto di guerra” destinato a lanciare l’attacco a palazzo Chigi, si guardano in cagnesco e faticano a trovare una linea comune.

Un solco incolmabile

La defezione di Polverini, Rossi e Causin, affiancandosi alle molte altre precedenti, ha peggiorato ulteriormente la situazione e messo in chiaro che tra Forza Italia e gli attuali compagni di strada c’è un solco incolmabile – discorso che vale ancor più per Udc, seguaci di Toti e altri sparsi cespugli del microcosmo centrista. Per cui, se anche l’improbabile ipotesi di elezioni anticipate si avverasse e la coalizione le vincesse con più del 50 per cento, ogni coerente programma di governo sarebbe azzoppato dalla consapevolezza di vivere sotto la spada di Damocle dei ricatti che i Cesa, i Lupi, le Binetti e gli altri partner minori e minimi potrebbero fare agli azionisti di maggioranza.

Salvini e Meloni queste cose le sanno. E se la seconda può sfruttare le circostanze tenendo alti i toni e puntando ad aumentare il proprio peso incarnando l’immagine della dura-e-pura, il leader leghista sembra sempre più incerto sul da farsi, il che spiega gli ondeggiamenti fra momentanee aperture al dialogo con il governo “per il bene del paese”, accenni a fantomatiche possibilità di varare un esecutivo di centrodestra con un’altra caccia ai voltagabbana che di certo non piacerebbe a molti suoi elettori e flebili chiamate al voto. Il tutto mentre il suo numero due Giorgetti gli scava il terreno sotto i piedi picconando a giorni alterni la pretesa di guidare un futuro governo, sostenendo che un sovranista non sarebbe mai accettato dall’Unione europea e che quel rifiuto aggraverebbe le difficoltà causate dalla crisi sanitaria e dalla voragine del debito pubblico. E accompagnando queste considerazioni con il suggerimento di uno spostamento della Lega dall’area populista a quella del Partito popolare europeo.

Incapace, almeno per ora, di reagire a queste provocazioni, il segretario leghista appare tentato dal definitivo abbandono delle argomentazioni populiste che lo avevano proiettato alla vetta del 34 per cento dei voti, e pur di rimanere al timone dell’eterogenea coalizione si trasforma in alfiere della “rivoluzione liberale”, in una parodia del Berlusconi di ventisette anni fa che rischia di dispiacere ai suoi seguaci e non gli assicura credito altrove. Come gli eventi delle ultime ore hanno dimostrato, è a causa dei centristi che l’alleanza rischia di sgretolarsi. Aprir loro altri spazi non può che porre nuove pietre d’inciampo su un cammino che, a dispetto dell’attuale favore popolare, pare arduo.

 

© Riproduzione riservata