Il caso Epstein mette alla prova la lealtà del mondo Maga verso il tycoon

«Potrei sparare a qualcuno in mezzo alla Quinta Strada e non perderei alcun voto», sostenne Donald Trump durante le primarie repubblicane del 2016, esprimendo di fatto un giudizio sprezzante sulla maturità politica e l’intelligenza stessa dei suoi elettori. Il caso Epstein potrebbe davvero mettere alla prova questa sua teoria: testare la lealtà, finora assoluta e fideistica, del popolo Maga verso il suo leader. «Potrebbe», ché il condizionale rimane d’obbligo. Troppi, complessi passaggi ancora si frappongono alla pubblicazione delle decine di migliaia di documenti dell’indagine federale sui crimini di Epstein. La Camera voterà a breve la richiesta affinché ciò avvenga. Poi sarà la volta del Senato, dove il risultato non è affatto scontato. E a quel punto, di fronte al quasi certo veto del presidente, Camera e Senato saranno costretti a trovare ampie maggioranze, i due terzi di entrambi, per superarlo. Un percorso lungo, quindi, e ad ostacoli. Nel quale decisiva diventerà la pressione dell’elettorato Maga sui suoi rappresentanti e senatori ovvero la rottura della fedeltà ultima al presidente. Per intanto ci si deve accontentare delle e-mail pubblicate dalla Commissione competente della Camera. Che mostrano quanto in parte già si sapeva: dello stretto rapporto tra Epstein e Trump e di come esso fosse cementato dal comune interesse per le donne, giovani e giovanissime. Ma che aggiungono altri dettagli su una relazione protrattasi ben oltre la presunta rottura tra i due e sul convincimento di Epstein di disporre di informazioni con cui ricattare Trump, soprattutto dopo la decisione di quest’ultimo di candidarsi alla presidenza. E che evidenziano, una volta ancora, come Epstein fosse al centro di una rete di relazioni e, presumibilmente, favori che coinvolgeva uomini potenti, di una parte politica come dell’altra (colpisce, e non poco, che fino all’ultimo arresto di Epstein, tra i suoi principali confidenti ci fosse l’economista Larry Summers, l’ex rettore di Harvard, segretario del Tesoro di Clinton e direttore del National economic council di Obama). Legami, questi, che hanno alimentato in passato una delle teorie complottiste più popolari e diffuse a destra: la tesi secondo la quale Epstein fosse al centro di una vasta cospirazione, che coinvolgeva élites globaliste legate ai Clinton e ai democratici. Una tesi nella quale convergevano paranoie antiche sulla presunta corruzione di un mondo politico cosmopolita e liberal sublimata nella violazione dell’innocenza pura e ultima: quella dei ragazzini e delle ragazzine caduti nella tela del pedofilo Epstein e dei suoi associati; vittime dell’impunità di cui questo mondo – contrapposto al popolo onesto e retto – avrebbe a lungo goduto. Epstein contro Trump: «Posso abbatterlo». Lo scandalo si allarga, il tycoon in silenzio Sono anni che queste teorie circolano nei miasmi della rete, nei siti di presunta informazione della Maga-sfera e tra esponenti pubblici e politici della destra trumpiana. Inclusi personaggi che oggi occupano posizioni apicali al Congresso e nella stessa amministrazione, come il direttore dell’Fbi Kash Patel. Che hanno concorso a gettare veleno nel corpo di suo malato della democrazia statunitense. E che ora fanno scudo per proteggere il presidente ed evitare la diffusione di altre rivelazioni, potenzialmente compromettenti. Tanto dipenderà ovviamente dal contenuto di queste rivelazioni. Dalla possibilità che Trump sia stato coinvolto non solo in attività illecite – non sarebbe la prima volta, come attestano le sue numerose condanne e le tante sanzioni pagate – ma dalla natura di queste illegalità. Il giudizio morale, prima ancora di quello legale, determinerà le conseguenze politiche. L’impegno profuso finora dall’amministrazione per evitare la diffusione di queste rivelazioni ci dice quanto preoccupati siano Trump e i suoi. Il successo di Candace Owens e la post-verità come strategia politica E quanto disponibili siano a sopportare sul breve il costo politico dell’ostruzionismo che stanno mettendo in atto – i sondaggi indicano che larghe maggioranze di americani (60 a 20) ne danno un giudizio negativo – per evitare di dover fare i conti con quello, probabilmente ben più pesante, che ritengono conseguirebbe alla pubblicazione integrale dei documenti.