Quattro anni fa l’elezione di Trump uccise un mio amico. Si chiamava Jeff Gillenkirk, era un giornalista e uno scrittore di San Francisco, 67 anni, sportivo e in buona salute. Quando arrivarono i dati finali della sconfitta, come molti altri venne preso dallo sconforto. Scrisse un articolo per la rivista Alternet in cui coniò il nome per una nuova malattia, Post Trump Disorder, parafrasi del Post Traumatic Disorder che colpiva – a schiere, come un’epidemia ritardata – i veterani delle guerre di Iraq e Afghanistan. Consigliava, nell’attesa di un medico, di chiamare le linee di assistenza telefonica per aspiranti suicidi, e poi, «di darsi una mossa, organizzarsi». Poi andò, era il suo lavoro, a insegnare educazione civica ai ragazzi di una scuola media superiore. E lì venne fulminato da un infarto, esito della malattia che si era autodiagnosticato.

Senso di liberazione

Ho pensato a Jeff, al trauma collettivo di allora, quando, un nanosecondo dopo l’annuncio Cnn della vittoria di Biden, a San Francisco si è levato un rumorosissimo concerto di clacson, grida, abbaiare di cani, musica, urla dalle finestre, fuga di uccelli dai pali del telegrafo; nessuno però in strada perché non si può ancora uscire.

Le emozioni hanno dominato questo voto, e non solo per chi quattro anni fa aveva perso. L’ansia accumulata, l’arroganza del presidente, la pandemia con i suoi (già) 240mila morti, la misteriosa minaccia di aggressioni ai seggi, lo stupore nel sentire, dalla bocca di Trump, che avrebbe licenziato Fauci, la minaccia dei «four more years» che ci avrebbero distrutti, il sudore freddo che viene quando ti accorgi che non ti senti più sicuro nel tuo paese. E poi, infine, il risveglio. Ah, era un incubo! Ah, posso respirare, non ho un ginocchio sul collo. Ah, esiste ancora la democrazia in America. Quel senso di “liberazione”, insomma...

Un tumulto emotivo di questa portata difficilmente lo si trova in altri eventi politici; in fin dei conti le elezioni e la democrazia sono in effetti questo, ma nel caso americano c’è stata l’acuta sensazione che qualcosa di diverso fosse successo, che fossero stati cambiati i connotati della vita in comune. In breve, l’ansia derivava dalla difficoltà di dare un nome a quello che era successo.

Dunque: un uomo volgare e di bassa moralità conquista, con l’aggressione, prima il suo partito e poi, in circostanze quanto mai losche, la maggioranza elettorale. Agita parole d’ordine che non si erano mai sentite: vendetta contro i suoi avversari, promette che costruirà un muro al confine, che espellerà 10 milioni di immigrati clandestini, che impedirà l’accesso ai musulmani nel paese, che l’aborto tornerà a essere illegale, che ci sarà sostanziale immunità per chi uccide il suo prossimo.

A rivederla oggi, la campagna elettorale vincente di Trump nel 2016 era basata sull’autorizzazione al sadismo, prima che sulle promesse economiche. Era il “mondo nuovo” e insieme antico, la nostalgia di un passato “bianco” che riproponeva la superiorià razziale, un nuovo e terribile “sogno americano”.

Il modello

Non era una novità, per l’America. Nel 1940-1941 il paese fu attraversato da un’ondata simile, un movimento che, come quello di Trump, si chiamava America First ed era guidato da una star mediatica, l’aviatore-eroe moderno Charles Lindbergh, e dall’inventore dell’automobile per tutti, Henry Ford. I temi lanciati erano molto simili a quelli di Trump, che infatti ha ripescato il nome.

Al centro c’era il proposito di cacciare dal paese ebrei e immigrati che non provenissero dall’Europa settentrionale, accusati di rovinare l’anima americana. Modello era Adolf Hitler, che aveva risollevato la Germania dalla sconfitta in guerra. America First, che chiedeva di accordarsi con Hitler e non entrare in guerra, rimase estremamente popolare fino al dicembre 1941, ci volle Pearl Harbor a cancellarlo. Nel 1932 in Germania, Hitler aveva preso i voti del “tedesco comune” autorizzando lo stesso sadismo; e il tedesco comune lo votò, pensando di essere un buon patriota.

Il trumpismo si è nutrito degli stessi argomenti, senza variarli troppo, ma è stato sconfitto. Il fatto eccezionale è che questo sia avvenuto senza bisogno di una guerra. Il mondo, la democrazia, la civiltà sono stati salvati da un esercito non violento per la prima volta nella storia. Uno sbarco in Normandia, guidato da Sleepy Joe, un nonnetto cattolico irlandese – che ha sempre trattato Trump come nuovo Hitler, senza problemi – e dalla figlia di una signora nata nel Tamil Nadu, che arrivata in California portava Kamala in passeggino in manifestazione.

Ma intanto quelli hanno preso comunque 70 milioni di voti, e lui sta ancora lì. Sì, è vero: ma non ha più forza. Ha fallito. Certo, come si diceva ai bambini una volta, «attenzione a non risvegliare la belva nazista!», ma è diventato un loser, è stato fermato; come bisognava fermare Hitler a Monaco.

Chi ringrazieremo per molto tempo? Le donne americane, le vere protagoniste della resistenza e della vittoria, e quelle afroamericane prima di tutte (sarebbe bello che Stacey Abrams della Georgia diventasse il ministro della Giustizia), i compagni di scuola sopravvissuti al massacro nel liceo di Parkland, Florida, George Floyd che ha resistito per 8 minuti e 53 secondi, i tantissimi studenti di Jeff Gillenkirk, i postini, i giornalisti tutti.

(A proposito di giornalisti: non ho ancora capito perché Repubblica abbia tifato per la vittoria di Trump. Voi l’avete capito?).

 

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