La vittoria di Joe Biden restituirà finalmente il sonno ai molti suoi appassionati sostenitori di questa sponda dell’Atlantico, che da martedì notte temevano di essere ripiombati in un incubo.

E se anche difficilmente li convincerà, in cuor loro, che il voto postale all’americana sia un appetibile prodotto di importazione (non si fa fatica a pensare quante raccolte di schede da imbucare nelle cassette delle lettere potrebbero essere organizzate da certi “volenterosi” in un buon numero di comuni di più d’una regione italiana), perlomeno concederà loro un momento di entusiasmo e di speranze, doti rare in questi tempi così carichi d’ansia.

Passata l’ebbrezza dello scampato pericolo, converrebbe però anche ai più acerrimi spregiatori di Donald Trump e dei suoi seguaci porsi qualche domanda, scomoda ma utile per affrontare e comprendere gli scenari futuri della politica, europea e non solo. Chiedendosi, per esempio, non solo – cosa su cui oggi tutti i commentatori si interrogano – come mai i 19 punti di distacco fra i contendenti previsti dai sondaggi e proclamati dai sondaggi fino a pochi giorni addietro si siano ridotto di tre quarti, ma anche che esito avrebbe avuto l’elezione se fra i piedi del presidente-tycoon non fosse capitato il Covid-19, trasformatosi in alleato decisivo dello sfidante.

Oppure perché alcuni degli Stati in cui i democratici avrebbero dovuto godere del sostegno delle minoranze latinos abbiano smentito le attese. E, soprattutto, quale sia il motivo per cui, dopo quattro molto discussi anni di mandato vissuto tra tentativi di impeachment, accuse di ogni genere, gaffes, contraddizioni, sbalzi di umore, esternazioni biliose censurate da Facebook e Twitter e dichiarazioni di voto ostili di vari big del suo stesso partito, Trump sia riuscito a convincere a preferirlo all’avversario almeno sette milioni di elettori in più di quelli attratti nel 2016.

Se a ciascuno di questi quesiti si è capaci di rispondere seguendo il criterio della ragione e non quello della fazione – insomma, evitando di dar retta alla “pancia” e non al cervello, come si dice che facciano sempre “quelli dell’altra parte” –, è difficile non rendersi conto che, al di là della sconfitta sul piano dei numeri di The Donald, l’elezione presidenziale 2020 ha dato un secondo importante responso: il populismo è più vivo che mai.

Lo è nonostante che, come una recente ricerca politologica internazionale approdata anche sulle pagine dei quotidiani italiani, la pandemia abbia nuociuto fortemente a Trump, che con il suo spericolato flirt con il negazionismo e le sciocchezze su inesistenti rimedi miracolosi all’infezione si è bruciato il capitale di consensi accumulato sul terreno delle politiche economiche.

E lo è perché, negli Usa come altrove, le classi dirigenti mainstream, sia progressiste che conservatrici, hanno dimostrato di non aver imparato la lezione dei successi che sovranisti, “illiberali” e populisti di varie sfumature hanno accumulato nello scorso decennio.

Il distacco delle élite

Puntando tutto sulle tematiche del politically correct – ampliamento della sfera dei diritti civili, promozione delle cause delle più varie minoranze, elogio del multiculturalismo e dell’accoglienza, minimizzazione delle preoccupazioni legate all’insicurezza e alla criminalità – e contando sulle casse di risonanza del ceto intellettuale e degli operatori dei mass media, hanno continuato a tessere le lodi della globalizzazione e a lasciar crescere l’ondata di delocalizzazioni produttive.

Hanno celebrato retoricamente l’intangibilità di istituzioni e costituzioni, sbarrando la strada ad ogni correttivo che sapesse di democrazia diretta.

Hanno derubricato a passeggeri accessi febbrili le manifestazioni di sfiducia verso il loro operato che si esprimevano, ad ogni tornata elettorale, con gli exploits di candidati anti-establishment o con massicce percentuali di astensione.

Questa sordità ha convinto un numero crescente di cittadini che il distacco tra “quelli che stanno in alto” e la gente comune non è solo un’invenzione retorica, che i politici di professione sono sempre autoreferenziali e inaffidabili.

La figura dell’outsider ne ha tratto ulteriore forza. Interpretandola con foga nell’ultima settimana di campagna, Trump ha colmato gran parte del divario accumulato.

I suoi emuli europei potrebbero imitarlo, sfuggendo alla trappola dell’istituzionalizzazione e sfruttando la rabbia sociale attivata dalla crisi pandemica. Il tramonto del populismo, a quanto pare, è ancora lontano.

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